LA CUCINA - Presenta l’aspetto della preparazione e del consumo dei pasti i nelle nostre aree rurali, recuperando i cibi di una volta. Passando all’insieme degli oggetti propone l’utilizzo di camini e stufe e l’evoluzione degli strumenti per la preparazione e il consumo dei cibi.
CIBI DIMENTICATI O RISCOPERTI
- Il cibo e la fame
- Macellazione e vendita abusive
- La conservazione sotto grasso
- Le sprelle col grasso fuso
- I vertis
- La polenta di castagne
- La trippa con le interiora di gallina
- I minestroni
- Il tosone
- Il sugo d’uva
- L’aceto e l’aceto balsamico
- Il cibo e la fame - Per tutto l’Ottocento e la prima metà del Novecento, una larga fetta della popolazione aveva difficoltà a procurarsi il cibo quotidiano. Di quel poco a disposizione non andava certamente sprecato nulla. Era famoso e reale il detto che del maiale non si buttava nulla; ci ricorda il sig. Millo che in famiglia allevavano un maiale, ma poi lo vendevano quasi tutto: si tenevano un poco di strutto, del lardo e le ossa, che davano un ottimo sapore a brodi, anche se privi di carne. In quel periodo l’alimento più diffuso (poiché il più economico) era la polenta di mais, che però aveva il difetto di essere povera di vitamine e sovente provocava la pellagra che poteva degenerare in demenza.
- La macellazione e vendita abusiva – Capitava spesso che per qualche malattia o per il parto una mucca morisse nella stalla. Teoricamente si sarebbe dovuta sotterrare ma era un peccato sprecare tanta carne. Succedeva così che, di nascosto, si macellava l’animale e la carne veniva in parte consumata dai proprietari e in parte venduta abusivamente ad amici e conoscenti. Il prezzo particolarmente contenuto faceva superare le paure di insalubrità e anche le persone meno abbienti potevano permettersi di acquistarne.
- La conservazione sotto grasso - Sino ai primi anni Sessanta la presenza dei frigoriferi in cucina era rara, per cui nasceva il problema di come conservare porzioni di carne che, in seguito all'uccisione di un animale, risultavano in eccesso per il consumo a breve. Una tecnica consisteva nel cucinare la carne, immetterla in un vaso di vetro o terracotta e ricoprirla con grasso fuso per impedirne il contatto con l’aria.
- Le "sprelle" condite col grasso fuso - All’inizio della primavera quando ancora l’erba nei prati era alta pochi centimetri, si raccoglievano le sprelle, una specie di radicchio. Si utilizzava il coltello per tagliare la radice sotto il cespo. Dopo averle ben ripulite e lavate si consumavano condite con un sugo a base di qualche pezzetto di lardo passato in padella. Oggi l’incubo colesterolo ha quasi fatto sparire il lardo dalle nostre tavole, ma fortunatamente le sprelle restano buone anche con un normale condimento ad olio.
- I vertis - Definiti da alcuni asparagi selvatici, in realtà sono le puntate (vertici da cui vertis) primaverili del luppolo selvatico. Questa pianta infestante è ancora marginalmente presente lungo qualche canale, ma sono ben pochi coloro che ancora conoscono e raccolgono i vertis.
- La polenta di Castagne – Nel nostro Comune, sostanzialmente di pianura, non ci sono mai stati boschi di castagni, quindi difficilmente le famiglie contadine utilizzavano la farina di castagne che aveva un certo costo. Nelle aree montane limitrofe invece la castagna rappresentava un alimento molto importante. Quindi, mentre in pianura il piatto forte dell’alimentazione era la polenta di mais, in montagna era la polenta di castagne.
- La trippa con le interiora delle galline – Un' intervistata ci ha raccontato che i vaccari di una volta erano molto poveri e quando la padrona del podere ordinava di uccidere un pollo, il grasso e le interiora restavano alla moglie del vaccaro che li trasformava in una ricercata trippa.
- I minestroni – Nella cultura delle nostre aree più che la pastasciutta si consumava il minestrone, cioè un brodo di verdura, ricco nelle stagioni di produzione orticola, più povero in inverno, ove imperavano le patate, le fave, i ceci, i fagioli e il garbus, cioè la verza. Un ingrediente raro, ma molto ambito e conteso, era la crosta di formaggio che, seppur grattugiata fino all’inverosimile, era molto saporita. La pasta era generalmente fatta in casa e i formati più comuni erano i maltagliati e le tagliatelle.
- Il tosone – Un tempo, quando la forma di parmigiano era pronta da mettere nel salatoio, si doveva stondare il bordo per non lasciare spigoli vivi. Si ottenevano delle rifilature, della larghezza di uno o due centimetri, che non avevano un mercato, ma generalmente il casaro le regalava ai bambini delle fattorie dove raccoglieva il latte. Oggi le fascere del grana creano subito la forma stondata, per cui il tosone come scarto non esiste più. Dato che c’è però una certa richiesta, lo si ottiene tagliando completamente una forma fresca e lo si conserva in frigorifero per la vendita.
- Il sugo d’uva - La pratica di produrre direttamente il vino per consumo famigliare, con la pigiatura nel tradizionale “navasol” o con l’utilizzo delle pigiatrici a rullo, è praticamente cessata con la fine del '900; le residue realtà di vinificazione domestiche sono ora ridotte a rari casi e a volte a scopo puramente ludico. Generalmente con il mosto si preparava un gustoso dolce: il sugo d’uva. Si prelevavano uno o due litri di mosto dal tino poche ore dopo la pigiatura, lo si portava ad ebollizione a fuoco lento, si aggiungeva poco a poco la farina bianca, mescolando per evitare che si formassero grumi. A cottura terminata si versava nei piatti e si lasciava raffreddare. Col passare dei giorni tendeva a diventare più consistente e più gradevole, ma non si poteva aspettare troppo a consumarlo perché se si formavano le muffe, si doveva buttare.
- Le flippe di mele - Verso settembre, molte contadine toglievano il torsolo alle mele mature con uno speciale attrezzo, le tagliavano a rondelle, quindi le stendevano al sole su dei tavolacci per farle essiccare. Questi anelli lievemente bruschi (le mele non sempre erano perfettamente mature) si potevano conservare nel solaio e consumarle sino all’inverno inoltrato.
- L’uva appassita- E’ nota l' ottima uva passa del nostro meridione, generalmente uva sultanina priva di semi. Da noi si raccoglieva l'uva bianca più dolce (moscato o malvasia) e la si appendeva in solaio, coperta con carta oleata. A Natale si portava in tavola questa uva appassita, ma ancora dolcissima. Alcuni facevano la stessa cosa con il lambrusco, ma il risultato non era certo lo stesso, anche per la presenza di numerosi semi.
- Al buter zitè – Durante l’inverno nei piccoli poderi le mucche erano "secche", cioè non producevano latte. Generalmente ne restava una che forniva il latte alla famiglia. Si aveva però cura di raccogliere la panna per produrre un burro casalingo. Se non si possedeva una zangola, si introduceva la panna in un contenitore di vetro che veniva agitato per una decina di minuti. Se il burro era in eccedenza, si ricorreva alla bollitura per conservarlo più a lungo e si otteneva così al buter zitè.
- La conserva di pomodoro - Nel tardo Ottocento, prima della nascita delle industrie conserviere, si era diffusa la coltivazione del pomodoro, che veniva bollito direttamente dai contadini con l'ausilio di "fornaselle" e di paioli per ottenere un super concentrato, “il sestuplo” che veniva poi commercializzato nel milanese. Il pomodoro veniva passato su un retino dai fori molto piccoli, da cui scendeva solo la polpa. Questa veniva bollita a lungo per ottenere una forte concentrazione che garantiva la durata del prodotto. La tradizione della produzione casalinga si è mantenuta, ma solo per produrre la passata di pomodoro, operazione estremamente facilitata grazie all'uso di centrifughe che provvedono all'estrazione della polpa e all'eliminazione delle pelli e dei semi. Ora si utilizzano contenitori con guarnizioni a tenuta stagna che consentono di poter sterilizzare il vaso in acqua bollente e garantiscono un prodotto di elevatissima durata.
- Le marmellate e le mostarde - Come per il passato di pomodoro l’abitudine di produrre di marmellate in casa è ancora diffusa, in particolare con l’utilizzo di amarene e susine. Normalmente la produzione si limita a qualche vasetto per la famiglia. Anche le mostarde hanno tuttora i loro appassionati e alcune farmacie, come quella di Basilicagoiano, vendono ancora la “snavra “ ovvero la senape in dosi da 10 gocce per chilogrammo di frutta.
- I liquori – Non mancano gli appassionati di nocino, con la raccolta delle noci da effettuarsi il giorno di S. Giovanni, i produttori di bargnolino, anche se i prugnoli sono ormai difficilmente reperibili. Dal Sud ci è arrivata la più recente moda del limoncino. Sembra invece totalmente scomparsa la distillazione casereccia della vinaccia, peraltro vietata dalla legge, per ottenere la grappa.
- L’aceto e l’aceto balsamico – Non sempre il vino prodotto era ottimo, ma se inacidiva, poteva diventare mezzo vino o, se proprio era imbevibile, si usava come aceto. Il nostro Comune è fuori dall’area di vocazione dell’aceto balsamico e non esiste una tradizione antica, ma ora spuntano le prime giovani acetaie, ovviamente di tipo famigliare.