Elenco delle storie
CANALI, RII, FONTANAZZI E MULINI
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Periodo StoricoLa Seconda Guerra Mondiale e le memorie
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Argomento storicoLe nostre memorie del 900 da S. Geminiano
Giardino Mazzoni sulla sponda della Zola
Il Rio Zola nasce dalle prime propaggini collinari del comune di Traversetolo e Lesignano, Piantone di S. Maria del Piano e Bannone. Fino all’attraversamento della provinciale Parma–Traversetolo, in località Piazza di Basilicanova ( podere le Bonarde ), ha le caratteristiche del fosso di scolo. Le prime piccole sorgenti si riscontrano in corrispondenza dei poderi S. Ferdinando e Casa Rossa. Sulla proprietà Leoni esiste una prima derivazione irrigua con una chiavica, un fosso e molti piccoli manufatti su un percorso di 150-200 metri nel podere casa Rossa a Tortiano. Scendendo a valle esisteva un’altra derivazione appena a monte della strada del Ballerino, con sottopassaggio della strada, per l’irrigazione del prato sottostante. Negli anni ’30 era intestata a Gherardi Maria Luigia in Panini con decreto 05/01/ 1935 n° 69/1431 per Ha 422,97, ma ora è completamente in disuso. Venendo a nord sino all’attraversamento della provinciale Parma – Montecchio, il rio si rimpingua con diverse piccole sorgenti presso l’ex monastero dei Salesiani, sino a raggiungere la chiusa Simonetta , dove un'altra sorgente, proveniente dal podere “Le Basse “, versa nel rio aumentandone notevolmente la disponibilità irrigua ( utenza S. Felicola ). Dalla chiusa Simonetta a quella dei Musi altre piccole sorgenti aumentano nuovamente il corso, per servire gli utenti del “Consorzio rio Zola”, sezione alta e sezione bassa.
Il Rio Zolletta nasce nella zona a sud di Piazza di Basilicanova e ha piccole sorgenti che vengono rimpinguate nel periodo luglio-settembre dalle acque di scarico dell’industria conserviera F.lli Mutti. Si aggiungono inoltre le sorgenti di S. Romana, e, verso Basilicagoiano, anche le acque del fosso dei Morti e della Fontana. In questa zona l’irrigazione è praticata da due piccoli gruppi di irriganti, il Consorzio della Mirandola e il Consorzio della Zolletta. Il Rio Zolletta confluisce nella Zola che raccoglie l’eventuale esubero di queste acque. In località S. Geminiano, la Zola si unisce al canale della Spelta terminando così il suo percorso.
Il Canale Maggiore – Viene derivato dal torrente Parma nel comune di Lesignano de’ Bagni e scorre per pochi chilometri nel nostro territorio e precisamente dal molino di Pariano fino al podere “Padreterno “ dove entra nel comune di Parma. Gli irriganti maggiori di tale canale sono la ex corte Giovanardi ed alcuni altri utenti della zona di Basilicanova.
Canaletta dei Rossi - Un percorso quasi simile per alcuni chilometri è quello della Canaletta dei Rossi che però, a monte di Basilicanova, devia verso la località Piazza, per proseguire verso Basilicagoiano e Tripoli . Nel suo percorso serve molti poderi per cui il consorzio degli utenti si è sempre avvalso dell’opera di un Camparo per regolare e disporre i turni d’irrigazione e, in caso di necessità, ordinare l’immissione di acqua dai pozzi esistenti nella zona, con aggravio di spesa nella tariffa oraria. La Canaletta dei Rossi oltrepassa Tripoli, segue la strada del Vallone, oltrepassa via S. Geminiano, sfocia nel rio Arianazzo che, a sua volta, finisce nell’Enza.
Il Gòrilo e l'Arianna – Un gruppo di agricoltori nella zona di Monticelli- S. Anna utilizzavano irrigavano con le acque di un piccolo corso denominato “Gòrilo “, ora estinto . Nella zona di Basilicanova scorre un canale detto” Arianna” proveniente da sorgenti sgorganti dalla zona di S. Maria del Piano. Nei pressi di Marano piega a destra dove riceve delle acque dall’acquedotto. Dopo tale fusione prende il nome di rio delle Fontane e, fino a Malandriano, segna il confine tra i comuni di Montechiarugolo e di Parma. Non risulta che le sue acque siano utilizzate per l'irrigazione.
Canale della Spelta e mulini - Un capitolo importante merita il Canale della Spelta, del quale i più antichi documenti parlano dell’esistenza già nel 1320, come pure del mulino della Resga. Si pensa però che la derivazione dall’Enza avvenisse tra Montechiarugolo e Tortiano . Infatti molti sostengono che nella zona appena a sud-est del castello di Montechiarugolo vi siano le fondazioni di un piccolo mulino fra l’alveo dell’Enza e il Montrone. Il canale avrebbe seguito il percorso di questo terrazzo fluviale portando acqua nella zona di via Resga ad uso irriguo ed alimentando anche un mulino. Non è molto chiara la data di derivazione del canale dalla presa di Guardasone . Dalle carte dei conti Torelli risulta che nel 1580 nella zona ad Ovest di Montechiarugolo scorreva il “canale nuovo della Spelta” già oggetto, al tempo del conte Pomponio, di interminabili controversie con i cosiddetti “ Uomini di Guardasone o Vignale”. Inoltre il canale della Spelta scorreva per qualche chilometro molto rasente all’alveo del fiume Enza, di conseguenza i Reggiani, facendosi forti della regola che le acque scorrenti nel fiume erano da dividersi tra le due provincie, rompevano gli argini del canale e l’acqua ritornava così nel fiume ed era nuovamente da dividere. La sorveglianza del primo tratto del canale era demandata agli uomini di Guardasone, i quali potevano anche avvalersi di un picchetto armato per allontanare i trasgressori . Nel 1600 si dovette ricorrere all’allontanamento del canale dall’alveo dell’Enza per le continue trasgressioni. I primi mulini esistenti erano il mulino della Riana, proprio sotto il sasso di Guardasone e il mulino della Resga. Il mulino Musi e il mulino Beccarelli furono costruiti tra il 1800 e il 1900. Il Mulino Beccarelli si trasformò in fabbrica di orologi. Il cosiddetto mulino della Pista o delle Polveri ardenti risale alla fine del Settecento . In detto mulino si fabbricavano polveri da sparo di cui esisteva un deposito nell’odierna scuola salesiana ( nel santuario ). Un grave lutto colpì il comune di Montechiarugolo: nel 1808 esplose la fabbrica delle polveri ardenti provocando 6 morti . La fabbrica continuò la sua attività nell’ ex convento fino al 1867. Fu poi riattivato il mulino che nell’ultima guerra era condotto dalla famiglia Gandini. Fu poi acquistato dai F.lli Cerioli, di origine reggiana, negli anni ’50. Fu trasformato ed ampliato ed è tuttora un‘attività fiorente e dinamica. Nel mulino della Resga, che risulta essere rimasto il più antico , veniva anche praticata la segheria a servizio degli agricoltori della zona: da qui il nome di mulino della Resga. Dal documento del consorzio degli irriganti del canale della Spelta, risulta che nel 1903 il mulino era di proprietà di Stefano Medioli il quale aveva l’obbligo della manutenzione e dell’espurgo del tratto di canale di circa 500 m a monte del mulino stesso che serviva da invaso di carico per poter azionare l’impianto . Negli Anni Venti con la proprietà dei fratelli Bardiani il mulino subì un certo ampliamento e fu dotato di una turbina, mezzo molto più moderno delle attrezzature precedenti. Dal 1935 iniziò la conduzione della famiglia Menozzi , prima in affitto poi in proprietà. Da allora il mulino ha subito continui aggiornamenti e tuttora è un’attività molto quotata , specialmente nella produzione di mangimi per l’alimentazione bovina. Come abitante della zona, nato e cresciuto senza interruzioni in questi luoghi, ritengo di aver potuto riscontrare tutte le carenze e le inefficienze del corso d’acqua nei decenni passati. In primo luogo la derivazione sotto il sasso di Guardasone ( prima della creazione della traversa di Cerezzola, sulla sponda reggiana, con conseguente sifone in cemento armato attraversante il fiume, della metà anni Cinquanta) avveniva in modo molto precario: si costruiva una chiusa con grossi sassi e terra. Finché il corso dell’Enza era normale, vi era una buona tenuta e l’acqua entrava con abbondanza nel canale. Quando però arrivava una piena, la corrente molto forte rompeva la chiusa e l’acqua abbandonava il canale, lasciando i mulini in secca. Questo si ripeteva periodicamente tutti gli anni da fine ottobre ad aprile. I mugnai allora si mobilitavano e, passato il grosso della piena, andavano a ricostruire la chiusa. Nel periodo delle irrigazioni i mugnai dovevano subire le continue lamentele degli utenti poiché il riempimento dell’invaso per macinare interrompeva l’afflusso regolare a valle del mulino stesso (dal 29 giugno all’8 settembre). Nei mesi autunnali nel grigliato davanti alla turbina occorreva una sorveglianza continua per poter estrarre dal canale una quantità enorme di foglie che potevano intasare la turbina. Nei mesi più freddi esisteva il pericolo del ghiaccio, sia nell’invaso anteriore che nel tratto immediatamente a valle, che impediva il libero deflusso dell’acqua. In questa emergenza il mugnaio doveva assoldare una squadra di uomini robusti che, con lunghe vanghe e mazze, riuscivano a liberare il canale. Negli anni ‘60- ‘70 a fronte di una vistosa penuria di acqua nei mesi estivi, il Demanio aveva aumentato in modo sproporzionato le tasse di concessioni governative per l’utilizzo delle acque a scopo molitorio; stando così le cose nel giro di qualche anno tutti gli operatori, pur affrontando ingenti spese, si risolsero ad allacciarsi alle linee elettriche che assicuravano continuità di lavoro e pochissime interruzioni. Altre non lievi difficoltà sorsero in tempo di guerra , quando l’annonaria aveva stabilito il regime controllato della macinatura, ritenendo i mugnai responsabili in prima persona delle inesattezze di carico e scarico. Col passare degli anni l’attività molitoria si è ristretta a ben pochi mulini. Sul canale della Spelta attualmente ne esistono due. Sul canale maggiore, tranne quello di Porporano, sono stati tutti dismessi ed in parte trasformati in ristoranti od altre attività . Esiste pure qualche cartiera . La parte del canale d’oltre Enza, dopo essere stato dotato di sottopassaggio in calcestruzzo, è tuttora funzionante e arriva a Praticello ed Olmo; anche qui i mulini di un tempo sono stati tutti chiusi.
L’abbeveraggio dei bovini - Una cosa degna di menzione è l’abbeveraggio dei bovini. Nel canale della Spelta esistevano dei diritti per cui nei periodi non irrigui, i bocchelli avevano un piccolo dente nella paratoia che garantiva un minimo deflusso d’acqua che andava ad alimentare la “peschiera “, una vasca che esisteva in ogni podere e che serviva per abbeverare i bovini. Esistevano molti abbeveraggi anche nella Canaletta dei Rossi e presso gli irriganti della zona, anche se il maggior numero era sulla Spelta. In quasi tutti i poderi, con l’avvento degli acquedotti e delle turbine verticali sommerse, le peschiere sono completamente scomparse. Le acque sono più pulite e più igieniche .
Coltivazione della canapa – Devo premettere che nella mia famiglia esisteva, forse da parecchi decenni, il telaio per fare la tela come pure i cosiddetti “ filini” e il ”guindel” per dipanare le matasse del filo e l’aspa per trasformare in matasse le piccole bobine che provenivano dal filino. Venendo a mancare un vasto assortimento di tessuti e di telerie piuttosto grezze, molte famiglie ( numerose) di agricoltori, negli anni dal 1942 al 45, avevano pensato di coltivare la canapa, per poter arrivare, dopo un’ infinità di operazioni, ad avere tessuti fatti in casa con i propri mezzi. Ricordo bene che si seminava un campetto di canapa, badando bene che la semina fosse folta, cioè con una buona densità di seme, per avere delle piante con fibra sottile e quindi più lavorabile. A fine agosto o metà settembre le piante erano mature ; si procedeva quindi manualmente al taglio delle piante e si facevano dei mannelli di misura media muniti di diversi legacci perché non si disfacessero, si caricavano sul carro, e si portavano al maceratoio. Andavamo al podere Pontazzo condotto a mezzadria dalla famiglia Ferrari. All’estremo nord del prato stabile vi era un bel vascone profondo circa 80 cm. dotato di una buona scorta di tavolame e di grossi blocchi di cemento per coprire la canapa e assicurarne l’immersione per circa due settimane, senza che affiorasse in superficie. Si passava quindi a ritirare il prezioso carico, si scaricava nel cortile, si scioglievano i mannelli perché asciugassero, poi iniziava il lavoro grosso per noi ragazzi. Con le cosiddette “gramole “ ( una per sgrossare, una per rifinire) si continuava per ore a frantumare i fusti chiamati “canapuli”. Con la sgrossatura si toglievano tutti i pezzi grossi dei fusti, poi con la gramola più fine si toglievano i pezzetti più piccoli, e qualsiasi altra impurità, finché la fibra rimaneva bella pulita. Nel tardo autunno o nell’inverno veniva “al consèn” che aveva diversi pettini di acciaio, in parte più grandi, in parte più fini. Dopo aver passato ripetutamente le fibra nei vari pettini, ricavava due tipi di materia da poter filare, il “carsol”, molto fine, dal quale si otteneva un filato adatto per tessere le lenzuola e la” stoppa” che era più ruvida e dava un filo per tessuti più scadenti. Ottenuta questa materia prima, le donne si mettevano a filare di giorno e anche nelle serate invernali. Una volta piene le piccole bobine c’era altro lavoro per noi ragazzi: svolgere il filo di canapa delle bobine e tramutarle in matasse per mezzo dell’aspa. Quando si programmava di fare la tela, la mamma comprava il filo di cotone bianchissimo che doveva servire per l’ordito della tela. Se il cotone era in matasse bisognava ridurlo in gomitoli. Poi si piazzava una intelaiatura rettangolare verticale che aveva, sui montanti laterali, infissi una decina di pioli in legno. In una cassa rettangolare che aveva circa 20 riquadri, distribuiti su due file, si ponevano altrettanti gomitoli di cotone. Il filo di ogni gomitolo convergeva in una spatola avente altrettanti fori. Tutti questi fili provenienti dalla spatola si univano e si legavano insieme all’inizio dell’intelaiatura verticale che, congegnata in quel modo, distribuiva il mazzo di fili in tutte le impalcature e preparava l’ordito della tela che doveva essere esclusivamente di filo di cotone . Preparato questo grosso involto di fili di cotone, si provvedeva a trasferirlo sul telaio, arrotolandolo su di un perno cilindrico largo quanto la misura trasversale del telaio. La larghezza del telo era di solito non più di 120 cm. Per fare un lenzuolo matrimoniale occorreva cucire insieme due teli. L’ordito veniva teso in modo leggermente inclinato verso la postazione della tessitrice, curando di far passare ogni singolo filo prima per i “licci” poi per il pettine ed infine tutti i fili si allacciavano ad una striscia di tela chiamata “inizio tela “ fissata ad un altro perno cilindrico di legno ( diametro 10 cm) che in seguito arrotolava la tela appena fatta . I fili di cotone dell’ordito erano stesi in linea orizzontale, ma, per mezzo di due pedali, venivano spostati metà per metà verticalmente creando così un passaggio alto alcuni centimetri, entro il quale la tessitrice faceva scorrere la spola dove era arrotolato il filo di canapa, protetto da una custodia affusolata chiamata la “ nasvéla “ ( in italiano navicella ). Ad ogni passaggio della spola corrispondeva un movimento della cassa col pettine per stringere il filo al resto della tela ed anche un movimento intercalato dei due pedali . Nei giorni della tessitura ( vacanze di Natale oppure in marzo ) i ragazzi erano impegnati a fare le spole con un piccolo attrezzo chiamato ”lindor o spolador” munito di due supporti con una rotella e una spina lunga 50 cm. dove all’estremità appuntita si infilava la spola che veniva riempita di filo, ruotando il meccanismo. Ogni volta si preparavano 20 o 30 spole, si mettevano in un recipiente e si portavano alla tessitrice che lo collocava su un apposito ripiano della “panchetta “. Nello stesso tempo la tessitrice chiedeva di passare l’ordito con un preparato a base di farina per rendere più scorrevole il lavoro della cassa e faceva ruotare di circa 20-30 cm. la tela già fatta. La stanzetta del telaio era munita di un camino per i mesi invernali. Finita la lavorazione, la tela novella veniva sottoposta ad un processo di sbiancamento, ma non ricordo il procedimento. Anche se sbiancata, la tela , utilizzata per realizzare lenzuola, tovaglie, canovacci o asciugamani, era sempre molto ruvida; quando ci si asciugava dopo essersi lavati, la salvietta graffiava.
ALLEVAMENTO DELLE PECORE – Per qualche anno si cercò di tenere le pecore che fornivano lana per maglie e pullover. La custodia delle pecore era affidata ai ragazzi oppure venivano legate singolarmente ad un palo con una funicella lunga qualche metro nei punti dove cresceva un po’ d’erba, per non lasciarle scorrazzare nei prati. La tosa delle pecore avveniva due volte all’anno , ottobre ed aprile; prima della tosatura però si portavano nel corso d’acqua per un primo lavaggio della lana. Dopo la tosatura avveniva il lavaggio definitivo, con successiva esposizione al sole per asciugare la lana. Era interessante vedere la tosatura: alla pecora venivano legate le quattro zampe unite per impedire movimenti pericolosi ; si usava un grosso paio di forbici, appositamente realizzate. Dopo la tosatura, la pecora era irriconoscibile come aspetto e come dimensione. Avendo soltanto due femmine, pensando di poter allevare qualche agnello, era necessario trovare un maschio in prestito per la riproduzione. Compito anche questo piuttosto ingrato e affidato ai ragazzi. Vi era una famiglia di Tortiano che prestava il maschio. Si doveva andare a Tortiano in due con un'unica bicicletta. Una volta prelevato il montone, uno lo conduceva a piedi con una corda , l’altro, più grande, seguiva adagio in bicicletta. In mancanza di strade più comode si arrivava a ridosso del ponte di Montecchio poi si imboccava il sentiero dell’Enza e, dopo un’infinità di giri e di curve, si arrivava all’inizio di via Resga ad un chilometro da casa. Torno a ripetere che gli indumenti ottenuti con la lana di pecora avevano una buona tenuta termica, ma procuravano un disgustoso prurito. La fine della guerra portò al graduale ristabilimento di una vita più normale e dignitosa.
I GIOCHI DEI RAGAZZI E E EGLI ADULTI NEL PERIODO INVERNALE – Il luogo consueto ed insostituibile per il ritrovo dei ragazzi ed adulti era la stalla. Il periodo più felice erano i mesi di novembre e dicembre. La nostra stalla preferita era quella di S. Geminiano Sud, proprietà Candian, mezzadri fratelli Fochi. Era molto spaziosa, con ampie finestre che davano molta luce . Vi era sempre una posta vuota dove si potevano piazzare un tavolino e le sedie senza disturbare nessuno. Ci si andava molto spesso perché mia sorella maggiore aveva in quella famiglia due compagne di scuola. Intanto che la nonna Italina leggeva “il Conte di Montecristo “ ed altri libri, noi giocavamo a briscola o a tombola. In qualche occasione si presentava un divertimento straordinario: un parente di famiglia, allora quindicenne, di nome Mario Barigazzi, il futuro “Barimar”, era appassionato di fisarmonica e, pur essendo giovanissimo, era un virtuoso e le ragazze più grandicelle si mettevano a ballare tra di loro. La sera però si rimaneva nella nostra stalla meno comoda e meno spaziosa, ma almeno, nelle ore serali, gli animali erano coricati e tranquilli. Le donne per due o tre ore filavano o lavoravano a maglia. Avevamo sempre due garzoni che vivevano presso di noi. Il più giovane portava degli stivaletti a metà gamba, con suole di legno e tomaie di pelle, chiamati in dialetto i “sabò”. Era abituato a costruirseli da solo e la sera veniva nella stalla con due tomaie da cucire con ago, spago e pece. Era però tanta la sua passione per il gioco che, appena l’altro garzone proponeva una partita, abbandonava il suo lavoro ed iniziava il gioco che si protraeva sino a tarda sera. In definitiva il lavoro di calzolaio che avrebbe potuto finire in una settimana durava più di un mese. Un altro ospite della serata di stalla era un agricoltore delle vicinanze, molto appassionato di politica e degli avvenimenti internazionali . Sapendo che noi avevamo la radio veniva tutte le sere perché alle 20,30 si andava ad ascoltare il “giornale radio”, poi si tornava nella stalla e si commentava quanto si era ascoltato. Spesso era presente un vicino, molto patriottico, che era stato un ragazzo del ‘99 e alpino con il grado di caporalmaggiore; aveva un’infinità di episodi di vita militare da raccontare. Molto spesso però l’uditorio si riduceva a due sole persone: il sottoscritto e mio padre. Mio padre non aveva però molta resistenza come uditore e dopo circa un’ora si addormentava e rimanevo io solo ad ascoltarlo . I racconti si ripetevano più volte, tanto che ancora oggi sarei in grado di ricordare tutti i luoghi da lui citati e le vicende vissute e come si era distinto per atti di valore . Terminata però la stagione invernale, i giochi in casa e gl’incontri con i vicini subivano una certa rarefazione . Durante il periodo scolastico fino a giugno, dopo i compiti e le lezioni, non restava molto tempo, anche perché i genitori avevano pronti diversi lavori : portare da bere a chi lavorava nei campi, riempire la vasca dell’acqua con il “sambot” per abbeverare il bestiame, custodire la scrofa quando aveva i maialini piccoli, perché nel coricarsi non li schiacciasse, raccogliere e sgranare i fagioli nell’orto e tanti altri lavoretti adatti ai ragazzi. Nell’estate al tempo della raccolta del pomodoro da fine luglio sino ai primi di settembre, era il momento propizio per costruire le casette con le cassette da pomodoro: si allestivano il negozio di alimentari, la trattoria e, per le femmine, il laboratorio di sartoria col relativo movimento di gestori e di clienti. Rimaneva anche il tempo di fare il gioco della settimana, nascondino e anche vari giochi con la palla che però non era sempre facile possedere. Arrivato il periodo scolastico si rientrava nei ranghi e tutto tornava nella quotidiana normalità. (Enrico Mazzoni)
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Data creazioneGiovedì, 29 Aprile 2021
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Ultima modificaVenerdì, 10 Maggio 2024