Elenco delle storie
ENRICO MAZZONI DA S.GEMINIANO
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Periodo StoricoLa Seconda Guerra Mondiale e le memorie
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Argomento storicoLe nostre memorie del 900 da S. Geminiano
Le nostre memorie da S. Geminiano
ENRICO MAZZONI classe 1934
Indice
Località e scuole Basilicagoiano, Tripoli, S. Geminiano, Campo Bo.
Conventi e oratori Oratorio S. Carlo Borromeo. Convento S. Felicola. Oratorio S. Anna alle Salde.
Ricordi degli anni d’infanzia L’esondazione del rio Zola. L’Obbligo dei conferimenti. Bombardamenti sui ponti dell’Enza. La manna dal cielo. L’ultimo episodio. La sepoltura del militare tedesco. Lo sparo nella notte.
Personaggi e fatti Il cerca tesori. La profanazione. Il pozzo e l’acqua santa. La di lui dote. Il fabbro di Tripoli. Il furto di galline.
Canali rii fontanazzi e mulini Rio Zola. Rio Zolletta. Canale Maggiore. La canaletta dei Rossi. Il Gòrilo. La Spelta e i mulini. Abbeveraggi bovini.
Coltivazione della canapa
Allevamento delle pecore
I Giochi dei ragazzi
LOCALITA’ E SCUOLE
BASILICAGOIANO – Frazione di Montechiarugolo, è situata a 15 Km a sud-est di Parma, sulla strada provinciale Parma- Montecchio, ad un’altitudine circa 118 m s.l.m. Il suo nome ha origini piuttosto incerte: sembra che agli inizi del VI° secolo il vescovo Giuliano di Piacenza abbia fatto costruire la chiesa, da ciò il nome iniziale Basilica Aguliani. Ora è chiamata anche “la Villa “.
Il territorio è pianeggiante, leggermente ondulato, degradante dolcemente verso Nord, con un terreno piuttosto fertile, ideale per la produzione di cereali e pomodoro. Ai tempi in cui frequentavo la scuola, esisteva lo stabilimento “ la Valparma per la lavorazione e trasformazione del pomodoro “. Il prodotto principale è però il latte che viene lavorato nei diversi caseifici della zona ( Formaggio parmigiano ).
Scorrono nella zona il rio Zola, La Zolletta e il canale della Spelta le cui acque servono per l’irrigazione. Le strade principali sono: la provinciale Parma- Montecchio, la provinciale via Resga che collega la provinciale Parma-Montecchio con la statale via Emilia; ci sono inoltre altre strade comunali che collegano le varie frazioni : - Malcantone – Gazzaro – Tre Fumi – Castello - Crespine – S. Geminiano. Transitano da e per Parma alcune corriere e autobus giornalieri. In paese troviamo: la Chiesa, l’Ufficio Postale, la Banca, la farmacia, le scuole elementari e medie, il Consorzio Agrario, negozi vari e locali pubblici.
PERSONAGGI ILLUSTRI DEL NOSTRO PAESE:
- Francesco Magnani: Arciprete di Basilicagoiano per ben 32 anni (1747 – 1779) , professore all’Università di Parma e letterato.
- Cornelio Ghiretti: scultore nato a Basilicagoiano nel 1881 e morto prematuramente nel 1934, allievo dello scultore Renato Brozzi. In paese possiamo ammirare alcune sue opere: il monumento ai Caduti e il cosiddetto paliotto in sbalzo in rame, raffigurante scene della vita di Gesù e sovrastante l’altare maggiore della chiesa .
NOTIZIE SULLE SCUOLE ELEMENTARI DI BASILICAGOIANO E FRAZIONI MINORI
Per Basilicagoiano si hanno notizie certe della costruzione della scuola sul terreno donato a tale finalità dalla benefattrice Marcellina Caggiati - Bocchia nel 1907. La costruzione comprendeva due aule grandi per due pluriclassi 2° - 3° e 4° - 5°. La prima elementare era situata al primo piano dove esisteva l’appartamento della maestra; vi erano inoltre i servizi, ampi corridoi, comode scale di accesso, ampia area cortiliva con giardino e orto. Negli anni precedenti esistevano aule scolastiche piuttosto precarie nella casa parrocchiale ( ora via Giovanni XXIII) e in una modesta casetta ubicata nel cortile a Nord della Chiesa. Dopo la costruzione della nuova scuola per oltre due decenni era abituale la frequenza alla 4° e 5° elementare di parecchi alunni provenienti da alcune frazioni dei dintorni dove non era possibile frequentare le ultime classi elementari.
Nella frazione di Tripoli il fabbricato adibito a scuola elementare (Morzola) sorse anch’esso attorno al 1910. Negli anni Quaranta l’edificio scolastico era costituito da una grande aula a piano rialzato che ospitava la 2° e la 3° elementare. Al primo piano esisteva una modesta aula per la prima elementare e l’appartamento per la maestra. Anche qui esisteva una spaziosa area cortiliva con giardino e orto. Per la 4° e 5° elementare gli scolari ormai grandicelli frequentavano a Basilicagoiano. La frazione di Tripoli, da una mappa del 1865, si estendeva solo al bivio tra via Morzola e via Ponticelle, ma era già presente la piccola Maestà chiamata da tutti la Madonnina. Infatti il piccolo podere creato in seguito con una modesta casa colonica prese il nome di “podere della Madonnina” .
Il nome di Tripoli compare nel primo decennio del XX secolo quando un cittadino nato nel nostro paese, di ritorno da una breve emigrazione in Libia, pensò di costruire, sul fosso denominato Canaletta dei Rossi, un chiosco di legno da adibire a piccolo negozio di generi alimentari e bar. Il Comune non riconobbe subito quella denominazione , infatti quando furono costruite le scuole, presero il nome di “scuole di Morzola” . Dopo qualche anno la famiglia Dall’Asta pensò di costruire un fabbricato in muratura solida, atto ad ospitare una vendita di generi di monopolio, alimentari e trattoria. Gradualmente attorno a questo primo fabbricato sorsero alcune casette mono-famigliari. L’esercizio pubblico condotto direttamente dal proprietario ebbe sfortunatamente a subire un furioso incendio nel quale morì la moglie del titolare, mentre una cognata subì gravi ustioni alle gambe. Dopo questo luttuoso evento si susseguirono diversi gestori non sempre fortunati.
Verso il 1940 arrivò una famiglia più fortunata o forse più idonea che gestì il locale, al quale era stato annesso un forno, per quasi un decennio. Nel 1948 infine, il locale fu acquistato dalla famiglia Rosati che conduce tuttora l‘attività e che si è guadagnata negli anni un’ottima fama, grazie ad un tipo di cucina tradizionale e genuina.
Nel primo decennio del Novecento, e anche per qualche decennio del secolo precedente, una piccola scuola era situata nel caseggiato del podere “Bosco a sera “ allora di proprietà del dott. Benvenuto Cipelli (ora via Vallone 1, proprietà della famiglia Bonzanini ), la quale disponeva di un’ aula di dimensioni discrete , con finestre abbastanza grandi; anche qui gli scolari non oltrepassavano la 3° elementare, anzi si era creato un certo malcontento poiché le famiglie residenti in via Resga Enza, in case molto sparse, come Covazza – casa Bianca – casa del Pozzo – casa Tripoli, chiedevano l’ubicazione della scuola più al centro della zona. Per alleviare i disagi esistenti il comm. Ing. Francesco Vecchi, sindaco del comune negli anni 1902-1903, aveva proposto di allestire un’aula scolastica nel caseggiato del “Podere Fornace” di sua proprietà, nelle vicinanze del mulino della Resga, ma purtroppo, a causa della sostituzione del sindaco, il progetto non ebbe attuazione.
Scuola bosco a sera ( I° scuola a Tripoli )
CAMPO BO – Frazione di Martorano, comune di Parma, al confine Nord del comune di Montechiarugolo. Una vecchia e ben radicata tradizione orale vuol ricordare il nome Campo Bo come riferita alla invasione dei Galli contro Roma. I Galli Boi avrebbero fissato per diverso tempo un loro accampamento nella zona, da qui il nome di campo Boi, poi Campo Bo. Al tempo dei conti Torelli appartenne alla suddetta contea, come risulta da un atto di divisione del 1547 fra Pomponio Torelli e il fratello Adriano; già a quel tempo scorrevano sui terreni circostanti i due rami del canale della Spelta ( per Coloreto e per Martorano ) derivati dallo sbarramento spartitore di S. Geminiano. Una targa marmorea incorporata nel manufatto di una chiavica sul ramo di Martorano recita così : Chiavica n° 88 ad uso esclusivo della corte camerale di Campo Bo, eseguita in legno nel 1682/3 rifatta in ferro nel 1925. Da questo documento si evince che dopo la morte del Conte Pio Torelli avvenuta nel 1612 nel contesto della fantomatica congiura dei nobili parmensi contro Ranuccio Farnese, la proprietà dei Torelli fu confiscata e passò alla camera ducale di Parma.
A detta delle persone anziane del secolo scorso, esistevano delle fondazioni di fabbricati abbastanza estese nella zona a nord ovest rispetto ai fabbricati attuali, denominata Campo Bo vecchio. Durante le arature affioravano mattoni vecchi, sassi da costruzione ed altro e penso che ciò succeda anche attualmente. Nell’autunno 1953 nella zona a Sud-Ovest della corte e precisamente nel podere Prospero, allora condotto dalla famiglia Cocconi, durante i lavori per la preparazione della semina avvenne uno sprofondamento di un breve tratto di terreno . Dalla successiva esplorazione venne alla luce una tomba in muratura contenente resti umani. La notizia non fu allora riportata dai giornali e del ritrovamento non si seppe più nulla.
Riprendendo la storia di Campo Bo è doveroso ricordare un’epigrafe marmorea collocata sul muro Sud del fabbricato rustico che suona così:
Anno 1823. “ O Giacomino, delizia nostra, se tu non fossi nato dopo 22 anni di vuote nozze, quest’aia e questo bovile non ti predirebbero le dovizie di Campo di Bo. Andrea Ferrari e Carlotta Pelati. Anno 1823”
Nel XX° secolo l’intera corte fu per quasi un quarantennio (1900 – 1935) di proprietà del comm. Ing. Prof. Ildebrando Nazzani ( 1844-1931 ), che fu senatore del regno d’Italia. Dopo la sua morte l’intera proprietà fu smembrata dagli eredi e questo fu l’inizio di dissidi insanabili che portarono alla vendita di quasi tutta la corte ( tranne le 100 biolche della figlia Estella, la cui proprietà sopravvisse per qualche tempo ). Al momento della morte, il cavaliere Nazzani era proprietario unico di Campo Bo, S. Geminiano ( a Nord di via S. Geminiano) e di altri grossi poderi in Malandriano, Martorano, Baganzola, nonché di parecchi immobili in Parma città ( anche la moglie aveva delle proprietà nei Prati Bocchi ecc.). Ora, a 75 anni dalla morte, quasi nessuno ricorda quel personaggio così importante.
SAN GEMINIANO - Dal catasto di Maria Luigia del 1821 si desume quanto segue : il tratto di strada della via Resga che, partendo dal bivio di S. Geminiano, arriva al confine col Comune di Parma ( Podere Pontazzo ) e si collega con via Argini Enza, era inesistente. La sua costruzione avvenne nel 1925: era allora stato eletto Podestà Ugo Mutti. Dagli abitanti della zona è ancora chiamata “ la strada nuova “, poiché il ponte sul rio Zola, proprio sotto S. Geminiano, non esisteva e il passaggio del rio avveniva con un guado; non risultano documenti che parlino della sua costruzione. Nel terreno antistante i fabbricati di S. Geminiano Nord (ex proprietà del ing. Nazzani) è segnato un grosso riquadro nella parte più pianeggiante che molto probabilmente era un “macero da canapa”. Alla sommità della salita è segnata una costruzione stretta e abbastanza lunga, proprio rasente la strada, che gli anziani al tempo della mia infanzia definivano “l’Oratorio di S. Geminiano”. E’ da notare che allora la strada non rasentava né le mura né i fabbricati di S. Geminiano Sud ( ex Carlo Piazza): tutto ciò collima con il ritrovamento nel 1949 di un tratto di fondamenta a quasi 10 m. dalla strada verso la sommità della salita. I proprietari del tempo, F.lli Baratta, vollero fare un vigneto in questa sponda esposta ad Est. Gli operai che scavarono manualmente fino alla profondità di 80 cm, trovarono un tratto di queste fondamenta costituite da grossi sassi legati da calce abbastanza dura. Nessuno ritenne che si trattasse di un reperto storico e si provvide a demolirlo. Nella suddetta mappa del 1821 si notano altre due diversità con le mappe attuali: ( 1) nell’area cortiliva di S. Geminiano Sud era segnato un fabbricato di forma più o meno quadrata che non esiste più; (2) di fronte al podere Romuschia sulla via Resga era segnato l’ingresso ad un ponte sul canale della Spelta con un lungo stradello che portava ai fabbricati del podere Malvezza ( chiamato ai nostri giorni al Buraccion ). Di questo ponte non è rimasta traccia e l’accesso a Malvezza è tuttora da altra parte. Ma, tornando a S. Geminiano Nord, al piano terra, a metà circa del lungo fabbricato, esistono due portoni, uno a Nord e uno a Sud, con volto semicircolare, che racchiudevano un androne da tutti chiamato” il Santuario”. Sulla parte Est esiste tuttora una nicchia con un quadretto di S. Geminiano . Per esigenze abitative, mezzo secolo fa l’androne è stato chiuso a circa due metri per accedere alle scale in modo più indipendente e riservato ( parte Sud). I residenti del secolo scorso notarono, nelle stanze al piano terra e al primo piano, un’architettura che faceva pensare ad un convento . Il piano interrato è costituito da una grande cantina con robuste volte e, a detta di molti, esiste una galleria che doveva, nelle intenzioni di chi la costruì, collegare questo fabbricato con S. Geminiano Sud e con il castello di Montechiarugolo. Questa versione è veramente poco credibile perché, dovendo attraversare una vallata ricca di acque risorgive, la galleria sarebbe rimasta completamente allagata. Più credibile è invece l’ipotesi che proseguisse per gli altri fabbricati posti sul crinale di quel modesto terrazzo fluviale che va sino a Basilicagoiano e potesse congiungere Morzola Furlana, Morzola dei Serviti, Torre dei Servi e Castello ( ex proprietà Ganassi ) dove esistono tuttora resti di edifici medioevali. Durante la costruzione del tratto della cosiddetta strada nuova ed anche nella costruzione di una concimaia a S. Geminiano Nord, vennero alla luce resti umani. Nel fabbricato di S. Geminiano Sud ( fam. Candian ) esistono due saloni: quello al piano terra era probabilmente il refettorio e quello al primo piano una sala da studio del monastero. Esiste uno scantinato spazioso con volte solide ed artistiche. L’accesso dalla parte Est è possibile anche con mezzi meccanici. Ai tempi della mia infanzia esistevano due cunicoli poco accessibili perché ingombri di rottami ed altro, dai quali uscivano facilmente toponi e rettili e vennero perciò chiusi. Si diceva che fossero il collegamento con S. Geminiano Nord. La stalla era un opera d’arte con arcate multiple e con finestre che si distinguevano dalle comuni stalle della zona. Un’ architettura simile si riscontra nel Podere Fornace , nel podere Bosco a Mane e nel podere Frigeria, dove era stata costruito il caseificio aziendale con annessa ghiacciaia. Tutte queste opere portano la data dal 1840 al 1850, cioè gli ultimi lustri della vita del proprietario Carlo Piazza.
La SCUOLA DI SAN GEMINIANO ebbe invece una vita più breve. Verso la fine degli anni ’50, l’avv. Tullio Candian, che aveva già costruito l’esercizio pubblico, volle dotare la frazione della scuola elementare. Per due anni la scuola fu finanziata dal fondatore, poi diventò pubblica e statale. Nel 1967 volle costruire un nuovo edificio scolastico intitolato al padre Prof. Aurelio Candian e ne fece donazione al comune, a condizione però che, in caso di chiusura della scuola, l’edificio fosse sempre destinato ad attività culturali. Alla fine degli anni ‘70 la scuola fu costretta alla chiusura per forte diminuzione di alunni. Il comune la trasformò nella sede del corpo bandistico di S. Geminiano.
ORATORIO DEDICATO A SAN. CARLO BORROMEO ( in S. Geminiano )
Le prime notizie del luogo sono del 924: una pergamena dell’archivio capitolare di Parma del I° aprile 924 parla di “locas et fundus Ramulani“ di evidente derivazione romana, forse a soccorso dei viandanti che percorrevano la strada romana che da Brescello conduceva a Luceria –Linari ed “all’antica Luni”. Sorse intorno al secolo XI° un convento con annesso ospizio di cui si ritrovano tracce nel fabbricato di S. Geminiano. Il 14 luglio 1163, in presenza di testimoni, Gerardo, figlio di Armando di Martorano, concesse ai canonici della cattedrale di Parma i diritti di “Amaxamento e investitura che ad esso spettavano della chiesa posta in loco dicitur Geminiano “ e sue pertinenze. Ciò probabilmente portò ad un atto successivo per ripristinare i diritti non sempre rispettati da Gerardo. Nel 1183 in un documento conservato nell’archivio di stato citato da don Drei Vol. III si 24 b è riportato un atto di testimonianza nella contesa sorta fra il convento di S. Quintino di Parma e il parroco di Martorano per il possesso della chiesa di S. Geminiano. Alberto Perborello testimoniò che da oltre 50 anni la badessa di S. Quintino teneva “in quiete e sine al quo contrario “ la chiesa di S. Geminiano, e vi investiva i parroci Ogerio e Cleofa. Questi ultimi, in segno di sottomissione, andavano ogni anno al monastero di S. Quintino e portavano alla Badessa polli, uova, formaggio e 2 libbre di cera come segno inequivocabile di riconoscimento del diritto di proprietà del monastero. Nello stesso documento si citano due abitanti di questo luogo, Giovanni Bellalancia e Donichilda, i quali testimoniano che la suddetta chiesa appartiene alla Badessa Alchenda di San Quintino, le cui monache venivano e dimoravano a loro piacimento. Dopo queste notizie il luogo di S. Geminiano non viene ricordato per lunghi anni. Probabilmente fu poi ricompreso nella crescente influenza dell’Abbazia di S. Felicola . Annesso più tardi al feudo dei Torelli di Montechiarugolo, S. Geminiano è ricordato in un atto di divisione del 1567 fra Pomponio Torelli e il fratello Adriano. Soltanto dopo l’acquisizione da parte di un imprenditore lombardo - piemontese di nome Carlo Piazza , proprietario di diversi poderi della zona, S. Geminiano tornò ad essere all’onore delle cronache . Carlo Piazza, nominato Podestà del comune di Montechiarugolo dal 1835 al 1846, possedeva circa 100 ettari di terreno, con caseificio aziendale, suddivisi in diversi poderi. Restaurò molti fabbricati rurali e ne costruì dei nuovi; nella casa padronale costruì l’oratorio dedicandolo a S. Carlo Borromeo . Tra i suoi discendenti, tutti in linea retta femminile, troviamo la figlia Teresa, sposa del ing. Vecchi, Sindaco di Montechiarugolo (1900-1902) , da questi la figlia Albina maritata Cipelli e la figlia Anna moglie del prof. Candian, illustre figura di docente di materie giuridiche presso le università di Parma, Pavia, Milano, nominato prof. Emerito dal presidente della Repubblica . Egli formò negli studi diverse generazioni di giovani educandoli ad alti ideali di giustizia e di etica morale e professionale.
Tra i suoi figli, il Dott. Tullio Candian volle perpetuare il nome del padre, attraverso una scuola a lui dedicata che poi donò al Comune , purché fosse dedicata ad attività culturali. Fu fondatore della banda musicale di S. Geminiano che, dopo la sua morte, è stata intitolata a suo nome.
SANTA FELICOLA – In un documento del 924 si ricorda una donazione, in loco Romulano, all’oratorio dedicato a S. Felicola . In un atto di affittanza del 31 ottobre 1148 viene ricordato un certo Baldovino, come affittuario, ed il prete Parmo, canonico della chiesa di S. Felicola, come concedente. Anche nel 1156 si ricorda una donazione di vari beni alla suddetta chiesa. Nel 1018 vi sorse il monastero ad opera dei canonici regolari di S. Agostino, provenienti da santa Maria del Reno di Bologna. Dette notizie sono tratte dal volume “Le carte degli archivi parmensi di don Drei”. Nel XII° secolo il monastero raggiunse la sua massima importanza col possesso di terre anche a Montecchio e S. Ilario, oltre alla concessione della chiesa con ospedale di S. Sepolcro in Parma. Nel 1165 altra acquisizione di terreno nei pressi della chiesa di S. Ambrogio (Montecchio) e nel 1169 altre concessioni in affitto o livello di un podere denominato Cerreto compreso tra le due Zole con sovrastante Molendino ancora oggi rintracciabile ( presso Basilicagoiano ). Nel 1313 l’abbazia fu incendiata dalla furia ghibellina, nella guerra di Gioacchino Sanvitale contro Parma. Da allora non si riprese, perseguitata anche dalla peste nera del 1348 in seguito alla quale rimasero solo due frati a reggere il monastero che fu quindi unito a quello di santa Romana ( o S. Ermanno, in via XXV aprile ) rimasto completamente sguarnito. Nel 1360 il consiglio dei canonici di S. Sepolcro decise di abbandonare il priorato che era ormai da tempo inefficiente, incorporandolo nella mensa vescovile. Detta decisione fu revocata dal duca di Milano e dal Comune di Parma. Dopo varie controversie durate sino al 1456, l’arciprete della cattedrale e due rappresentanti dell’abbazia raggiunsero un accordo: il priore dell’abbazia avrebbe pagato 300 ducati d’oro entro la Pasqua del 1458, in tre rate . Nel 1460 con l’aiuto di Bianca Visconti, moglie di Francesco Sforza , i canonici della congregazione di Mortara vennero a Parma e posero la loro dimora in S. Sepolcro. I priorati di S. Felicola e S. Ermanno vennero aggregati alla cosiddetta “ Prebenda di S. Sepolcro” in essere sino ai giorni nostri. E’ del 1489 un contratto di mezzadria stipulato da fra Sanbernardo, priore di S. Sepolcro, e S. Felicola con tre famiglie di mezzadri della zona e precisamente : i fratelli De Borri, i fratelli De Martini, il Barone Stefano Cafagnini e figli. La stipula avvenne il 20 novembre 1489 nel refettorio di S. Felicola , contratto che a quei tempi prevedeva molte clausole pesanti e restrittive nei confronti dei mezzadri. L’intera proprietà rimase alla prebenda sino al 1789; con bolla di papa Pio VI° passò all’ospedale di Parma che la permutò con altri beni della famiglia dei Conti Simonetta. Dai suddetti passaggi di proprietà restarono esclusi i due poderi Fratta e Casellina, condotti in affitto per alcuni decenni del secolo passato dalla famiglia Beccari, entrambi sulla provinciale Parma- Montecchio; il podere Fratta, essendo in ottima posizione, fu quasi tutto lottizzato ed ora è una bellissima zona residenziale. La Casellina invece fu ceduta all’affittuario che lo conduce attualmente. S. Felicola, chiamata abitualmente “la Corte”, ai tempi dei conti Simonetta, era estesa per 500 biolche e comprendeva, oltre al nucleo centrale dov’era l’Abbazia, i poderi Barcaccia, prospiciente alla strada provinciale, Le Pergole, il podere Canova, i poderi Casa del Pozzo, Casa Tripoli e Casa Bianca, collegati alla corte con strade vicinali. E dall’ultimo dopoguerra, dopo il prolungamento di via Resga fino alla Fratta, gli ultimi tre poderi fronteggiano la nuova via Resga. Oltre ai poderi suddetti la proprietà si estendeva anche al molino della Pista, ora molino Cerioli. Attorno al 1920 per controversie di carattere ereditario, la famiglia dei Conti Simonetta si apprestò alla vendita dell’intera proprietà a Brandino Vignali, persona dotata di grandi capacità imprenditoriali . Erano allora affittuari di tutti i terreni i fratelli Garsi , conosciuti anche in seguito per l’attività di produzione di laterizi in Basilicanova. I fratelli Garsi ottennero, come buonuscita per lasciare libera l’intera proprietà e come provvigione per aver fatto opera di avvicinamento tra le parti, la proprietà dei tre poderi Casa del pozzo, Casa Tripoli e Casa Bianca. Vignali dimostrò di essere un provetto bonificatore: nella parte più alta della proprietà denominata “il Montirone” procedette alla deforestazione ed alla messa a coltura del terreno, nella zona bassa chiamata “le Risaie“ trasformò la coltivazione del riso con altre più adatte all’allevamento del bestiame. Si adoperò per migliorare la zootecnia. Erano i tempi di Stanislao Solari e del professor Bizzozero e Brandino Vignali, pur essendo illetterato , veniva molto spesso chiamato a tenere delle relazioni ai convegni agricoli. Costruì, secondo una sua strategia di miglioramento aziendale, i fabbricati rustici e l’abitazione del conduttore, chiamati per sua volontà “Cà Toti”, stralciando dal complesso della corte il terreno più scomodo nell’estremo Nord –Ovest. Concluse un accordo con i proprietari dei terreni Le Basse (Fam. Bianchi) per il risanamento idrogeologico di quel fondo che, a causa di molte piccole sorgenti superficiali, era quasi completamente paludoso. Detto podere era posto al di là del rio Zola, a Sud dello sbarramento denominato “chiusa Simonetta”. Il Vignali operò un’imponente opera di bonifica con numerosi drenaggi. Il podere fu completamente risanato e, secondo gli accordi, egli ebbe il godimento delle acque recuperate ad uso perpetuo da immettere nella chiusa Simonetta, per uso irriguo della sua proprietà. Si dedicò pure all’industria conserviera costruendo uno stabilimento per la lavorazione del pomodoro in Basilicanova ( ora trasformato ). Nella sala che fu un tempo il refettorio del monastero penso ci siano ancora numerose fotografie che lo mostrano in viaggio in bicicletta con numerosi campioni del suo prodotto da portare ai tanti potenziali clienti, anche ad una notevole distanza. Nell’età matura fu insignito di numerose onorificenze per benemerenze in campo agricolo. Nel periodo più florido dell’azienda , la corte arrivò ad ospitare 27 famiglie, oltre ai mezzadri e affittuari dei vari poderi. Vi era il caseificio aziendale, la segheria ad uso interno, un piccolo laboratorio per la produzione di blocchi e di tubi in cemento necessari per la costruzione e manutenzione di piccoli locali rustici. Dopo la morte del commendator Brandino, la proprietà passò al figlio Gino che non ebbe l’intraprendenza del padre. Fra il 1946 e il 1948 con il prolungamento di via Resga fino alla Fratta, la proprietà venne tagliata dalla nuova strada. La parte chiamata un tempo” Bosco di S. Felicola ” venne venduta e così pure il mulino della Pista e il podere Cà Toti. Gradatamente l’azienda perse l’importanza e la dinamica di un tempo. Ora sia la corte che i vari poderi sono condotti da affittuari esterni.
ORATORIO S. ANNA “alle Salde “ . Dagli archivi della Curia vescovile , grazie alla cura di don Enrico dall’Olio archivista, apprendiamo che fu visitato da Mons. Carlo Membrini il 27 aprile 1686 . La relazione, pur essendo breve, rende noto l’identità del proprietario e ricorda il provvedimento di sospensione di ogni celebrazione in attesa che si dotasse la chiesa degli arredi necessari poiché, probabilmente, era di recente costruzione. Dell’oratorio non si ha più notizia sino al 25 giugno 1714 giorno della visita dell’inviato di don Camillo Marazzani, che ne indicò l’ubicazione dichiarandolo sotto la giurisdizione di Monticelli e Montepelato e di proprietà dei fratelli Francesco, Carlo, Antonio, ed Alessandro De Thomatis abitanti in Montechiarugolo. Nella relazione si diceva che l’oratorio era ampio, ma tutto da tinteggiare. Occorreva quindi rimuovere dal soffitto molti nidi di rondine, chiudere le finestre, eliminare le infiltrazioni d’acqua, dipingere i candelabri e sistemare il Palio dell’altare che era appoggiato al muro. Ad opere eseguite, Mons. Marazzani rilasciò la licenza di officiarvi i sacri riti il 27 agosto 1727, dopo aver accertato tramite l’arciprete di Malandriano che erano state adempiute tutte le prescrizioni. Era possibile celebrarvi la messa festiva, ad esclusione della Pasqua, Natale, Pentecoste ed ogni importante festa parrocchiale. In quel tempo era proprietario Carlo Tomati assistito dal sig. Domenico Paglia di Parma. Nella successiva visita dell’8 luglio 1778 degli inviati di Mons. Pettorelli Lalatta, essendo la proprietà passata al Dott. Lorenzo Musi, si parla di soddisfazione dei visitatori che trovarono cose belle ed ottima conservazione. In occasione della visita di Caselli, il 27 agosto 1806 ( proprietario era sempre Lorenzo Musi ) si rinnova l’impressione positiva per l’ottima manutenzione. Al tempo di Mons. Vitale Loschi l’oratorio fu visitato dal Canonico Gianbattista Pellegrini e dal dott. Bolzoni Don Domenico ( 17 settembre 1883). I due visitatori lo descrissero sufficientemente capace, provveduto del necessario, con struttura a volta, e a far fede degli arredi, era stato stilato un inventario firmato da Filippo Musi e dal cappellano del tempo. L’oratorio figura nuovamente in due visite compiute da Mons. Evasio Colli il 25 aprile 1941 e il 14 aprile 1955 dove si lamenta lo stato di abbandono dell’oratorio, a quel tempo di proprietà dell’avvocato Giovanni Lusignani. Non si hanno notizie del tempo in cui apparteneva ai Baroni Mistrali, creati Baroni da Maria Luigia. Due di essi furono sindaci in Montechiarugolo: il barone Attilio (1863-1866) e il barone ing. Giovanni Vincenzo (1902 – 1903) . Del tempo dei Mistrali esiste un imponente platano tuttora tutelato dalla sovrintendenza regionale. Viva curiosità ha sempre destato un prato stabile nel comprensorio di Campo Bo, ma collegato a S. Anna con un ponte sul canale della Spelta, definito dalle vecchie mappe catastali “ Prato del beneficio di S. Anna”. Dopo la morte dell’avv. Lusignani fu creata una fondazione esauritasi nel giro di pochi anni. La proprietà fu quindi venduta agli affittuari, Famiglia Leoni. S. Anna è ricordata nel libro delle “Ville parmensi” del prof. Gambara in cui vengono menzionati il parco ed il laghetto; quest’ultimo però non esiste più.
RICORDI DEGLI ANNI D’INFANZIA – Il mio primo ricordo riguarda una brutta esondazione del rio Zola avvenuta il 28 agosto del 1938: avevo circa quattro anni e mezzo e non potevo essere di grande aiuto agli adulti. Ricordo una frenetica corsa di mio fratello e delle mie sorelle maggiori per salvare innumerevoli galline che venivano trasportate dalla corrente. Il pronto intervento di tutti gli adulti permise di salvare le cassette di pomodoro vuote, infilandole sui pali. Le balle di paglia giacenti sull’aia venivano assicurate sotto il portico. Si crearono barriere improvvisate con il letame per chiudere l’accesso alla porta morta, alla stalla e all’abitazione. L’afflusso sulle carraie del terreno appena arato comportò un lavoro di risistemazione durato quasi due settimane. L’avvenimento è ricordato nei verbali del Consorzio Utenti del Rio Zola, con strappo di paratoie e danni ai vari manufatti. La mia era una famiglia contadina e, essendo proprietari, avevamo la corrente elettrica sin dal 1934. Avevamo anche la radio e molti vicini di casa venivano la sera ad ascoltare i discorsi del Duce dal balcone di Palazzo Venezia. Durante la pigiatura, la radio si piazzava su un ripiano sopraelevato per favorirne l’ascolto ad un numeroso pubblico . I vicini venivano anche ad ascoltare brani di opere liriche cantate dal soprano Lina Paliughi di Borgotaro, oppure da Ferruccio Tagliavini di Reggio Emilia o da Beniamino Gigli .
L’OBBLIGO DEI CONFERIMENTI- Ricordo l’ordinanza da parte del governo, dopo la Guerra d’Africa, per la consegna delle fedi matrimoniali allo stato. Ci fu poi il concorso per la produzione del frumento in vista della cosiddetta Battaglia del Grano, con successiva consegna dei diplomi di produttività. Negli anni successivi ricordo poi le diverse requisizioni di vari prodotti che dovevano essere consegnati alle scadenze stabilite dalle ordinanze. Dopo l’inizio della seconda guerra mondiale si incominciò con l’obbligo di consegna dei fucili da caccia presso le stazioni dei carabinieri, poi l’obbligo di consegnare tutto il pentolame di rame. Si arrivò infine a pretendere di togliere dai campanili tutte le campane (meno una), il cui bronzo doveva servire ai cannoni e ed altri usi bellici. Ricordo che gli adulti che avevano assistito alla messa festiva, tornarono descrivendo le tre campane appena fatte scendere dal campanile: la più grande aveva un altezza superiore a 2 metri, le altre due erano di dimensioni minori. Si dovette consegnare anche il bestiame da macello . Ogni contadino aveva un determinato quantitativo di carne da consegnare ogni mese al cosiddetto “ raduno“ che si svolgeva una mattina alla settimana a Basilicagoiano, nel lato Est del sagrato sopraelevato della chiesa, in via Giovanni XXIII. Sono ancora presenti gli anelli ai quali si legavano gli animali. L’annonaria aveva istituito l’anagrafe bovina. In caso di morte di un vitello durante il parto o nei primi giorni di vita, il capofamiglia aveva l’obbligo di denunciare l’evento entro le 48 ore successive. Poi si arrivò anche alla consegna di un quantitativo di legna che doveva servire al riscaldamento dei locali pubblici, come scuole ed uffici comunali. Nell’autunno del 1944 i tedeschi, che avevano anche mezzi leggeri trainati da cavalli, istituirono pure il raduno del fieno: a Basilicagoiano erano visibili alcuni depositi di fieno presso la casa del cantoniere provinciale . Un discorso a parte e molto importante merita il settore dei cereali per uso alimentare umano. Infatti, già dai primi anni di guerra, venne istituito per chi non era produttore di grano, il tesseramento del pane. Credo di non errare : erano necessari per un giorno : 200 gr di pane per gli adulti e 120/130 gr per i bambini. Ognuno era munito di una tessera con i bollini . Per i produttori di grano fino al 1942 non esisteva nessun controllo. Si verificarono però già in questi anni numerosi casi di “mercato nero “ : un quintale di frumento consegnato all’ammasso valeva 4.000/5.000 lire, ma era risaputo che, chi aveva necessità di mangiare, era costretto a pagarlo 15/20.000 lire. Le autorità, per eliminare questo sopruso e per avere a disposizione le eccedenze di produzione, nella primavera del ’43 stabilirono un primo controllo. All’inizio di aprile venne da noi una guardia comunale la quale stabilì che, alla nostra famiglia di dieci persone, per arrivare alla prossima trebbiatura di fine giugno, bastava un certo quantitativo di frumento. Mio padre accettò, anche se non si aveva ancora esperienza in materia. I calcoli risultarono sbagliati. Si faceva il pane in casa e si cuoceva nel proprio forno circa una volta alla settimana. Il frumento venne a mancare per due settimane. Per la prima sfornata si usò la farina di segale e si produsse un pane che non si poteva mangiare. Le successive sfornate furono di farina di orzo mischiate a patate cotte e questo pane risultò più morbido. Un vicino di casa che aveva trebbiato una settimana prima, ci prestò un mezzo minon di frumento (20/25 Kg). Per la trebbiatura degli anni ‘43 e ‘44 l’annonaria stabilì la presenza di un controllore abilitato con l’obbligo di lasciare, in ogni famiglia, un quantitativo pari a Kg 200 per ogni adulto e Kg 120 per ogni bambino inferiore ai 14 anni . Il pane che si cuoceva per la famiglia non poteva essere bianco, ma doveva contenere la crusca : era quindi “pane integrale “.
Per la trebbiatura del 1944 non esisteva più la possibilità di trovare il carburante “nafta pesante” per il funzionamento del Landini. Si dovette così ricorrere alla macchina a vapore trainata da una coppia di bovini da tiro ( buoi o mucche ) e il cui funzionamento veniva alimentato con legna presente in azienda. Mancò anche il carburante (petrolio) per far funzionare un motore a scoppio che serviva per il sollevamento di acqua per irrigazione: per quasi due anni il pozzo fu inutilizzato.
Per quanto riguarda i pericoli in cui si incorreva a transitare per le strade, ho dei ricordi molto nitidi! Il primo sganciamento, penso accidentale, avvenne il martedì di Carnevale 1943. La maestra di quarta elementare ci aveva invitato ad assistere nel pomeriggio alla proiezione di un film comico nel cinema di Basilicagoiano. Durante la proiezione un fortissimo boato squassò il salone provocando molto spavento tra i ragazzi; si seppe che un aviatore solitario aveva sganciato due ordigni, chiamati da tutti “siluri” , nel greto del torrente Enza senza causare danni. Forse si era trattato di un avaria. Una ragazza di IV° elementare abitante alla Covazza ne fu talmente spaventata che abbandonò la scuola, interrompendo così l’anno scolastico. Dopo questo episodio le bambine provenienti dalla zona di Tripoli facevano molte assenze nel timore di incursioni aeree. Avvenivano spesso anche “spezzonamenti notturni” da parte di un pilota solitario chiamato Pippo. Siccome vigeva l’oscuramento, si era obbligati a chiudere porte e finestre in modo che non si potessero vedere luci dall’alto. Avvennero in quel tempo due spezzonamenti notturni, uno a S. Anna e uno nel podere Morzola dei Serviti con danni ai fabbricati. Un episodio veramente terrificante avvenne negli ultimi mesi di guerra. Eravamo rimasti in due scolari per delle lezioni preparatorie pomeridiane all’ammissione alla scuola media. La nostra aula era rivolta con le finestre verso Sud, dalle quali si vedeva distintamente lo stabilimento Valparma e la sua ciminiera. Vedemmo uno stormo di bombardieri che arrivava a bassa quota e corremmo a rifugiarci in un ripostiglio che fungeva da cantina. Subito un possente boato sembrò far vacillare il fabbricato . Quando tornammo nell’aula trovammo tutti i vetri delle grandi finestre frantumati sui banchi dove dieci minuti prima eravamo seduti.
I BOMBARDAMENTI SUL PONTE DELL’ENZA, della via Emilia e della provinciale Parma- Montecchio. Costruzione dei ponti precari e loro distruzione l’ultimo giorno di guerra presso il ponte di Montecchio.
Verso la fine del 1943, i due ponti sull’Enza per S. Ilario e per Montecchio erano intransitabili, per la distruzione di due arcate nel primo e di un’ arcata nel secondo. Furono tanti i bombardamenti susseguitisi : al Moro, il magazzino del consorzio agrario fu raso al suolo, mentre invece la statua ( di S. Giovanni Nepomuceno) nonostante le tante schegge resse egregiamente . Nella primavera del 1944 i tedeschi mobilitarono tutte le forze giovani e meno giovani della TOT per costruire due ponti sull’Enza, in sostituzione di quelli distrutti. Il primo venne costruito a circa un Km a Sud della via Emilia. Sembrava solido, durò tutta l’estate, ma alla fine di ottobre una grossa piena del fiume lo spazzò via. Il secondo venne costruito in prosecuzione della via “Resga Enza “ ed ebbi modo di seguirne i lavori perché ogni giorno portavo il latte alla latteria “Val d’Enza”. Venne allargata tutta la via Resga Enza, compreso il ponte sul canale della Spelta dall’ingresso del fiume sino a 50 m dalla sponda reggiana. Furono costruite 4 o 5 arcate in muratura solida dell’altezza di circa 2 m con sovrastante getto di cemento . I calcoli erano stati però troppo ottimistici: la piena di ottobre portò via tutta la strada sopraelevata e tutto il getto di cemento armato; rimasero soltanto, a ricordo dell’opera, i 5 o 6 monconi di muro di sostegno del ponte. Insoddisfatti dell’accaduto i tedeschi vollero costruirne un altro, però tutto in legno , a circa 100 m più a monte del primo, a servizio della via Emilia. Usarono però una tecnica destinata a dare risultati diversi. Piantarono enormi palafitte nel fiume, protette da solidi gabbioni. Tutta la corsia dedicata al passaggio ed i sottostanti sostegni erano di legno solidissimo resistente agli agenti atmosferici. Ed il piano di calpestio era fatto in modo da permettere l’aumento del volume del legno durante la stagione delle piogge. Questo ponte sfidò gli ultimi attacchi aerei della primavera 1945 per circa due mesi, poiché fu reso transitabile nel febbraio-marzo. A difesa dai bombardamenti erano state installate lungo gli argini del fiume una ventina di piazzole di artiglieria contraerea . Finita la guerra, le truppe americane piazzarono nel fiume due enormi caterpillar e riempirono di materiale ghiaioso le due arcate distrutte, sino al livello della strada e crearono le protezioni laterali: il traffico poté così riprendere regolarmente. Peggior sorte toccò invece al ponte di Montecchio che venne reso transitabile solo nel 1946 . Nel frattempo funzionava un ponticello provvisorio di legno, agibile però quando l’acqua del fiume era scarsa. Il ponte di legno a sud della via Emilia venne demolito nel 1945-46 e la ditta che intraprese l’opera di recupero dei materiali impiegò parecchio tempo a causa della eccessiva solidità del manufatto.
LA MANNA CADUTA DAL CIELO - Un fatto che le persone anziane ricordano lucidamente avvenne la mattina del 24 aprile 1945. Una colonna di tedeschi in ritirata, proveniente dal reggiano, attraversò l’Enza appena a valle del ponte inagibile. Vi erano anche una ventina di robusti cavalli che, appaiati, trasportavano materiali con veicoli a quattro ruote che noi chiamavamo “i carrettoni”. Furono sorpresi dai caccia americani verso mezzogiorno nel terreno a nord della strada provinciale, tra il fiume e il cosiddetto “Montirone”. Fu una carneficina. Finita l’incursione aerea vi erano stesi nel campo circa una ventina di cavalli, tutti morti. Erano le ultime ore di guerra e gli attacchi aerei cessarono. La popolazione di Montecchio, Montechiarugolo e dintorni, abituata negli ultimi mesi alla scarsità di cibo, pensò che fosse una buona occasione per fare provvista di carne. Iniziò una processione che si protrasse per oltre due giorni: la gente arrivava con una carriola, un carretto o una semplice bicicletta e si metteva a squartare gli animali sezionando cosciotti, lombi , spalle e tutte le parti migliori degli sfortunati cavalli. In questi due giorni fu una manna dal cielo che gli abitanti ricordano ancora. Alla fine rimasero tutte le carcasse comprese le teste e le interiora che furono prontamente sotterrate. Per circa una decina d’anni si poterono osservare nel “campo dei cavalli “ delle chiazze di grano e di foraggio che avevano un colore verde molto intenso, frutto della concimazione coi resti degli animali.
L’ULTIMO EPISODIO che ricordo si riferisce al 24 aprile ’45, penultimo giorno di guerra. Alle 6,30 del mattino arrivò a casa nostra un gruppo di graduati tedeschi che si definì “il comando”. Erano accompagnati dall’interprete e fecero capire che avevano bisogno di dormire, possibilmente in un letto. Mio padre mise a disposizione la sua camera, con il letto matrimoniale e il mio singolo. In tre si accomodarono in camera, mentre gli altri si misero a riposare sul fieno sotto il portico. Misero un soldato di sentinella e piazzarono una radio ricevente. Si seppe poi che un altro gruppo si era fermato nel podere “Casa nuova”, abitato dalla famiglia Borra, e che avevano sepolto un soldato morto lungo l’argine della Spelta. Verso sera tolsero il campo e partirono per Parma. Dopo meno di un’ ora però vennero rimpiazzati da una colonna di oltre venti automezzi della Croce Rossa. Forse vedendo un ampio cortile, in parte protetto da piante, ritennero il luogo adatto per una loro sosta. Issarono subito sul tetto un grosso tendone colla Croce Rossa, mandarono tutti noi a letto e, nella spaziosa cucina munita di un grande tavolo, cominciarono a scaricare i feriti effettuando medicazioni e qualche piccolo intervento. Per un po’ si sentì una forte agitazione accompagnata dai lamenti dei feriti, poi tutto tacque. Alle prime luci del giorno la colonna era già in assetto di partenza . Furono persone rispettose dell’ambiente e lasciarono tutto in ordine senza alcun danno. Dopo l’alba si cominciò a sentire “ il campanone” della Rocca di Montecchio e le campane dei paesi vicini che annunciavano la fine della guerra.
IL SOLDATO TEDESCO, sepolto provvisoriamente lungo il canale, trovò onorata sepoltura a spese del comune nel cimitero di Basilicagoiano. La sua tomba era collocata a sinistra, a pochi metri dall’ingresso del cimitero, munita di una croce di ferro e molte persone, che venivano a far visita ai loro cari, si fermavano per una preghiera o per deporre un fiore. Dopo qualche anno venne la moglie (il soldato si chiamava Heinz Eulering ed aveva trent’anni al momento della morte) la quale, vedendo la cura che era stata riservata alla tomba del marito, abbandonò l’idea di riportare i resti in patria. Tutto questo sta a confermare il celebre detto che suona così “ oltre la morte non vive ira nemica”. Quando si trattò di riesumare i resti mortali per scadenza dei termini, si verificò un altro episodio ammirevole di carità cristiana: un gruppo di tre signore anziane acquistò dal comune un piccolo avello dove furono posti i resti del soldato tedesco. Nella piccola lapide oltre alle generalità del defunto si legge una dedica veramente toccante “dove l’odio vede solo nemici l’amore trova solo fratelli “. Voglia Iddio che questi sentimenti di grande umanità possano tornare ad albergare nel cuore degli uomini che ora seminano il terrore e la morte.
LO SPARO NELLA NOTTE – Durante l’ inverno del primo anno di guerra, una forte nevicata aveva prodotto la rottura di molte linee elettriche lasciando senza elettricità la frazione di s. Geminiano per oltre 15 giorni. Fortunatamente allora l’energia elettrica aveva quasi esclusivamente la funzione di alimentare gli impianti di illuminazione; infatti al mancare dell’energia si diceva “ è andata via la luce “. In quelle sere, la famiglia Mazzoni aveva recuperato le lucerne e si apprestava ad andare a letto, ma giunti in camera si scoprì che sul letto il gatto aveva lasciato uno spiacevole ricordo. Mentre padre e figlio si coricavano, la madre posò la lucerna sul comodino, raccolse la coperta e scese le scale per dare una prima ripulita. Nel frattempo la lucerna cominciò a scaldare la cartucciera che il padre teneva appesa sul comodino. Improvvisamente si udì uno scoppio e una pioggia di pallini ricadde su padre e ragazzo, fortunatamente senza altri danni che un terribile spavento.
PERSONAGGI E FATTI
Il cerca tesori - Un personaggio di quel tempo era il signor Sartori di Tripoli, molto appassionato del gioco del lotto e della ricerca di antichi tesori. Molto spesso quindi chiedeva ai proprietari di antiche dimore, come Morzola, S. Geminiano, S. Felicola e altre, il permesso di poter scavare nelle immediate vicinanze . Un giorno la sua attenzione si rivolse nella zona del Romito di proprietà dei Marchesi Lalatta Costerbosa. Essendo stato un posto di dogana, dove la cosiddetta nave dell’Enza traghettava le persone dal ducato di Parma a quello di Modena, poteva riservare qualcosa di molto interessante. Coadiuvato da un amico aveva costruito una rudimentale trivella per perforare il terreno. Il Marchese Carlo, in un ciclostilato che ricordava gli avvenimenti della sua villa, asseriva di aver presenziato all’insediamento del cantiere. Il Sartori posizionò la trivella nelle immediate vicinanze dell’oratorio, dove spesso affioravano resti di un’ antica casetta che doveva essere la dimora dell’Eremita. La trivellazione proseguì bene e rapidamente, fino alla profondità di circa tre metri, poi si bloccò improvvisamente, senza possibilità di poter continuare. I due, animati dal presentimento di aver incontrato veramente il tesoro, si misero febbrilmente al lavoro e in poche ore scavarono una specie di pozzo di dimensione adeguata al recupero. Giunti alla quota giusta dovettero amaramente constatare di aver incontrato un grosso sasso dell’Enza. Furono talmente amareggiati che smontarono immediatamente il cantiere.
LA PROFANAZIONE- Un altro fatto molto singolare avvenne nei primi anni del secolo scorso a S. Felicola . I proprietari Conti Simonetta decisero di demolire circa due terzi del chiostro del monastero che delimitava il cortile interno, per venire incontro alle richieste degli affittuari Fratelli Garsi che necessitavano di locali rustici per foraggi e bestiame. Fu pure sconsacrata la chiesa e utilizzata come magazzino di stagionatura del formaggio grana. Le acquasantiere della chiesa vennero adibite ad uso profano . La popolazione dei dintorni, con un misto di fede religiosa e anche un po’ di superstizione, giudicò in modo negativo specialmente la sconsacrazione della chiesa e si mormorava : “ La famiglia Garsi andrà in rovina per questa profanazione : ha usato le acquasantiere per abbeverare le galline!”.
IL FURTO DI GALLINE – Negli anni Cinquanta c’era ben poco da rubacchiare, pertanto i furti sul territorio riguardavano principalmente qualche attrezzo agricolo, i pali delle vigne per farne legna, l’uva, le pannocchie di granoturco e… le galline! Un giorno, di ritorno dalla messa, mi trovai a scendere lungo via Vallone, ove due carabinieri con una motocicletta scrutavano con atteggiamento perplesso una macchia di robinie ( piante dotate di lunghe spine ). Una soffiata li aveva avvertiti che lì si trovavano delle galline rubate. L’ambiente, tutt’altro che facile, e la proverbiale destrezza dei militi rendeva difficile il recupero. Infatti, mentre una parte della refurtiva era morta all’interno di un sacco di carta, l’altra fortunatamente si era salvata poiché l’umidità delle loro abbondanti deiezioni aveva rotto il sacco . Probabilmente ero più esperto in materia di polli rispetto ai carabinieri, per cui il mio intervento permise di riacciuffare le galline fuggiasche e, con la mia Topolino “C” furgonata, di farne la consegna in caserma.
IL POZZO E L’ACQUA SANTA - Dimenticavo un aneddoto simpatico accaduto nella zona negli anni ‘20. Viveva nella Casa Nuova di S. Geminiano una famiglia di agricoltori, mezzadri del ing. Nazzani. Il capofamiglia, il cui nome era Enrico Costa, era molto credente e assisteva assiduamente alla messa. Si spostava soltanto a piedi e, nonostante la notevole distanza, era sempre il primo ad arrivare in chiesa. L’arciprete don Romani raccontò che una mattina d’estate si era fermato in parrocchia per fare una richiesta strana. Aveva il pozzo di casa che era rimasto in secca e volle una bottiglia di acqua santa da versare nel pozzo per far tornare l’acqua indispensabile alla casa e al bestiame. La domenica successiva disse che l’acqua era tornata. L’Arciprete commentò così l’accaduto: “ Io non ho personalmente constatato il fatto, ma devo riconoscere che era un uomo di grande fede.”
LA DI LUI DOTE - Un altro avvenimento eclatante era narrato dagli anziani di un tempo : l’ing. Nazzani, che poi divenne proprietario di una vistosa fortuna , in gioventù non era affatto ricco. Quando convolò a nozze con Giulia Bocchi di Parma, il padre di lei volle convocare il futuro genero, forse un po’ preoccupato riguardo al futuro della figlia . Essendo di famiglia molto ricca fece notare al futuro genero la diversità di ceto sociale . In concreto disse : “ Io concedo a mia figlia una vistosa dote, ma tu cosa ci metti ?” Il Nazzani per nulla turbato puntò l’indice destro sulla fronte dicendo : “Io ci metto questo”, indicando il cervello. E seppe dimostrarlo ampiamente al suocero ed a tante altre persone sapienti e altolocate . Ad esempio, un fatto che ebbe risonanza nazionale fu la costruzione di un certo numero di sbarramenti sul fiume Tevere, nell’Agro Romano, che risolsero l’annoso problema delle esondazioni.
IL FABBRO DI TRIPOLI - Un altro personaggio da non dimenticare fu il fabbro di Tripoli, Antonio Corradi, detto comunemente “ al Moret”, appassionato artigiano del ferro battuto, molto amico dello scultore Renato Brozzi di Traversetolo. Egli ebbe la preveggenza di individuare nel giovane Cornelio Ghiretti, purtroppo scomparso in giovane età, le doti di un futuro genio. L’epigrafe sulla sua tomba infatti ricorda che fu “strappato prematuramente alla mirabile arte del Cellini “.
CANALI IRRIGUI, RII, FONTANAZZI E MULINI
Il Rio Zola nasce dalle prime propaggini collinari del comune di Traversetolo e Lesignano, Piantone di S. Maria del Piano e Bannone. Fino all’attraversamento della provinciale Parma–Traversetolo, in località Piazza di Basilicanova ( podere le Bonarde ), ha le caratteristiche del fosso di scolo. Le prime piccole sorgenti si riscontrano in corrispondenza dei poderi S. Ferdinando e Casa Rossa. Sulla proprietà Leoni esiste una prima derivazione irrigua con manufatto chiavica, con fosso e molti piccoli manufatti su un percorso di 150-200 m ( podere casa Rossa ) in località di Tortiano. Scendendo a valle esisteva un’altra derivazione appena a monte della strada del Ballerino con sottopassaggio della strada, per l’irrigazione del prato sottostante. Negli anni ’30 era intestata a Gherardi Maria Luigia in Panini decreto 05/01/ 1935 n° 69/1431 per Ha 422,97 ? ma ora è completamente in disuso. Venendo a Nord sino all’attraversamento della provinciale Parma – Montecchio, il rio si rimpingua con diverse piccole sorgenti presso l’ex monastero dei Salesiani, sino a raggiungere la chiusa Simonetta , dove un'altra sorgente, proveniente dal podere “Le Basse “, versa nel rio aumentandone notevolmente la disponibilità irrigua ( utenza S. Felicola ). Dalla chiusa Simonetta alla chiusa detta dei Musi è tutto un pullulare di piccole sorgenti che aumentano nuovamente il rio, da dove attingono acqua gli utenti del “Consorzio rio Zola”, sezione alta e sezione bassa.
Il Rio Zolletta nasce nella zona a Sud di Piazza di Basilicanova e ha piccole sorgenti che vengono rimpinguate nel periodo luglio-settembre dalle acque di scarico dell’industria conserviera F.lli Mutti. Si aggiungono inoltre le sorgenti di S. Romana, e, verso Basilicagoiano, confluiscono anche le acque del fosso dei Morti e della Fontana. In questa zona l’irrigazione è praticata da due piccoli gruppi di irriganti, il Consorzio della Mirandola e il Consorzio della Zolletta , che confluisce nella Zola, raccogliendo l’eventuale esubero di queste acque. In località S. Geminiano, la Zola si unisce al canale della Spelta terminando così il suo percorso.
Il Canale Maggiore – Viene derivato dal torrente Parma nel comune di Lesignano de’ Bagni e scorre per pochi chilometri nel nostro territorio e precisamente dal molino di Pariano fino al podere “Padreterno “ dove entra nel comune di Parma. Gli irriganti maggiori di tale canale sono la ex corte Giovanardi ed alcuni altri utenti della zona di Basilicanova.
Canaletta dei Rossi - Un percorso quasi simile per alcuni chilometri è quello della canaletta dei Rossi che però, a monte di Basilicanova, devia verso la località Piazza, per proseguire verso Basilicagoiano e Tripoli . Nel suo percorso serve molti utenti per cui, a memoria d’uomo, il consorzio degli utenti si è sempre avvalso dell’opera di un Camparo per regolare e disporre i turni d’irrigazione e, in caso di necessità, anche l’immissione di acqua di pozzi esistenti nella zona, con aggravio di spesa nella tariffa oraria. La Canaletta dei Rossi oltrepassa Tripoli, segue la strada del Vallone, poi oltrepassa via S. Geminiano, andando a sfociare nel rio Arianazzo che, a sua volta, finisce nell’Enza.
Il Gòrilo – Ricordo che esisteva un gruppo di agricoltori nella zona di Monticelli fino a S. Anna che utilizzavano le acque ad uso irriguo di un piccolo corso d’acqua denominato “Gòrilo “ ora estinto . Scorre pure nella zona di Basilicanova un canale detto” l’Arianna” proveniente da sorgenti sgorganti dalla zona di S. Maria del Piano e, nei pressi di Marano, piega a destra dove riceve delle acque dall’acquedotto di Marano; dopo tale fusione prende il nome di rio delle Fontane e, fino nei pressi di Malandriano, fa da confine tra i comuni di Montechiarugolo e di Parma. Non risulta che le sue acque trasparenti e cristalline siano utilizzate per irrigazione.
Canale della Spelta e mulini - Un capitolo importante merita il Canale della Spelta, del quale i più antichi documenti parlano dell’esistenza già nel 1320, come pure del mulino della Resga. Si pensa però che la derivazione dall’Enza avvenisse tra Montechiarugolo e Tortiano . Infatti molti sostengono che nella zona appena a Sud-Est del castello di Montechiarugolo vi siano le fondazioni di un piccolo mulino fra l’alveo dell’Enza e il Montrone. Il canale avrebbe seguito il percorso di questo terrazzo fluviale portando acqua nella zona di via Resga Enza ad uso irriguo ed alimentando anche il mulino della Resga. Non è molto chiara la data di derivazione del canale dalla presa di Guardasone . Dalle carte dei conti Torelli risulta che nel 1580 nella zona ad Ovest di Montechiarugolo scorreva il “canale nuovo della Spelta” già oggetto, al tempo del conte Pomponio, di interminabili controversie con i cosiddetti “ Uomini di Guardasone o Vignale”. Inoltre il canale della Spelta scorreva per qualche chilometro molto rasente all’alveo del fiume Enza, di conseguenza i Reggiani, facendosi forti della regola che le acque scorrenti nel fiume erano da dividersi tra le due provincie, rompevano gli argini del canale e l’acqua ritornava così nel fiume ed era nuovamente da dividere. La sorveglianza del primo tratto del canale era demandata agli uomini di Guardasone, i quali potevano anche avvalersi di un picchetto armato per allontanare i trasgressori . Nel 1600 si dovette ricorrere all’allontanamento del canale dall’alveo dell’Enza per le continue trasgressioni. I primi mulini esistenti erano il mulino della Riana, proprio sotto il sasso di Guardasone e il mulino della Resga. Il mulino Musi e il mulino Beccarelli furono costruiti tra il 1800 e il 1900. Il Mulino Beccarelli si trasformò in fabbrica di orologi. Il cosiddetto mulino della Pista o delle Polveri ardenti risale alla fine del Settecento . In detto mulino si fabbricavano polveri da sparo di cui esisteva un deposito nell’odierna scuola salesiana ( nel santuario ). Un grave lutto colpì il comune di Montechiarugolo: nel 1808 esplose la fabbrica delle polveri ardenti provocando 6 morti . La fabbrica continuò la sua attività nell’ ex convento fino al 1867. Fu poi riattivato il mulino che nell’ultima guerra era condotto dalla famiglia Gandini. Fu poi acquistato dai F.lli Cerioli, di origine reggiana, negli anni ’50. Fu trasformato ed ampliato ed è tuttora un‘attività fiorente e dinamica. Nel mulino della Resga, che risulta essere rimasto il più antico , veniva anche praticata la segheria a servizio degli agricoltori della zona: da qui il nome di mulino della Resga. Dal documento del consorzio degli irriganti del canale della Spelta, risulta che nel 1903 il mulino era di proprietà di Stefano Medioli il quale aveva l’obbligo della manutenzione e dell’espurgo del tratto di canale di circa 500 m a monte del mulino stesso che serviva da invaso di carico per poter azionare l’impianto . Negli Anni Venti con la proprietà dei fratelli Bardiani il mulino subì un certo ampliamento e fu dotato di una turbina, mezzo molto più moderno delle attrezzature precedenti. Dal 1935 iniziò la conduzione della famiglia Menozzi , prima in affitto poi in proprietà. Da allora il mulino ha subito continui aggiornamenti e tuttora è un’attività molto quotata , specialmente nella produzione di mangimi per l’alimentazione bovina. Come abitante della zona, nato e cresciuto senza interruzioni in questi luoghi, ritengo di aver potuto riscontrare tutte le carenze e le inefficienze del corso d’acqua nei decenni passati. In primo luogo la derivazione sotto il sasso di Guardasone ( prima della creazione della traversa di Cerezzola, sulla sponda reggiana, con conseguente sifone in cemento armato attraversante il fiume, della metà anni Cinquanta) avveniva in modo molto precario: si costruiva una chiusa con grossi sassi e terra. Finché il corso dell’Enza era normale, vi era una buona tenuta e l’acqua entrava con abbondanza nel canale. Quando però arrivava una piena, la corrente molto forte rompeva la chiusa e l’acqua abbandonava il canale, lasciando i mulini in secca. Questo periodicamente si ripeteva tutti gli anni da fine ottobre ad aprile. I mugnai allora si mobilitavano e, passato il grosso della piena, andavano a ricostruire la chiusa. Nel periodo delle irrigazioni i mugnai dovevano subire le continue lamentele degli utenti poiché il riempimento dell’invaso per macinare interrompeva l’afflusso regolare a valle del mulino stesso (dal 29 giugno all’8 settembre). Nei mesi autunnali nel grigliato davanti alla turbina occorreva una sorveglianza continua per poter estrarre dal canale una quantità enorme di foglie che potevano intasare la turbina. Nei mesi più freddi esisteva il pericolo del ghiaccio, sia nell’invaso anteriore che nel tratto immediatamente a valle, che impediva il libero deflusso dell’acqua. In questa emergenza il mugnaio doveva assoldare una squadra di uomini robusti che, con lunghe vanghe e mazze, riuscivano a liberare il canale. Negli anni ‘60- ‘70 a fronte di una vistosa penuria di acqua nei mesi estivi, il Demanio aveva aumentato in modo sproporzionato le tasse di concessioni governative per l’utilizzo delle acque a scopo molitorio; stando così le cose nel giro di qualche anno tutti gli operatori, pur affrontando ingenti spese, si risolsero ad allacciarsi alle linee elettriche che assicuravano continuità di lavoro e pochissime interruzioni. Altre non lievi difficoltà sorsero in tempo di guerra , quando l’annonaria aveva stabilito il regime controllato della macinatura, ritenendo i mugnai responsabili in prima persona delle inesattezze di carico e scarico. Col passare degli anni l’attività molitoria si è ristretta a ben pochi mulini. Sul canale della Spelta attualmente ne esistono due. Sul canale maggiore, tranne quello di Porporano, sono stati tutti dismessi ed in parte trasformati in ristoranti od altre attività . Esiste pure qualche cartiera . La parte del canale d’oltre Enza, dopo essere stato dotato di sottopassaggio in calcestruzzo, è tuttora funzionante e arriva a Praticello ed Olmo; anche qui i mulini di un tempo sono stati tutti chiusi.
L’abbeveraggio dei bovini - Una cosa degna di menzione è l’abbeveraggio dei bovini. Nel canale della Spelta esistevano dei diritti per cui nei periodi non irrigui, i bocchelli avevano un piccolo dente nella paratoia che garantiva un minimo deflusso d’acqua che andava ad alimentare la “peschiera “, una vasca che esisteva in ogni podere e che serviva per abbeverare i bovini. Esistevano molti abbeveraggi anche nella Canaletta dei Rossi e presso gli irriganti della zona, anche se il maggior numero era sulla Spelta. In quasi tutti i poderi, con l’avvento degli acquedotti e delle turbine verticali sommerse, le peschiere sono completamente scomparse. Le acque sono più pulite e più igieniche .
Coltivazione della canapa – Devo premettere che nella mia famiglia esisteva, forse da parecchi decenni, il telaio per fare la tela come pure i cosiddetti “ filini” e il ”guindel” per dipanare le matasse del filo e l’aspa per trasformare in matasse le piccole bobine che provenivano dal filino. Venendo a mancare un vasto assortimento di tessuti e di telerie piuttosto grezze, molte famiglie ( numerose) di agricoltori, negli anni dal 1942 al 45, avevano pensato di coltivare la canapa, per poter arrivare, dopo un’ infinità di operazioni, ad avere tessuti fatti in casa con i propri mezzi. Ricordo bene che si seminava un campetto di canapa, badando bene che la semina fosse folta, cioè con una buona densità di seme, per avere delle piante con fibra sottile e quindi più lavorabile. A fine agosto o metà settembre le piante erano mature ; si procedeva quindi manualmente al taglio delle piante e si facevano dei mannelli di misura media muniti di diversi legacci perché non si disfacessero, si caricavano sul carro, e si portavano al maceratoio. Andavamo al podere Pontazzo condotto a mezzadria dalla famiglia Ferrari. All’estremo nord del prato stabile vi era un bel vascone profondo circa 80 cm. dotato di una buona scorta di tavolame e di grossi blocchi di cemento per coprire la canapa e assicurarne l’immersione per circa due settimane, senza che affiorasse in superficie. Si passava quindi a ritirare il prezioso carico, si scaricava nel cortile, si scioglievano i mannelli perché asciugassero, poi iniziava il lavoro grosso per noi ragazzi. Con le cosiddette “gramole “ ( una per sgrossare, una per rifinire) si continuava per ore a frantumare i fusti chiamati “canapuli”. Con la sgrossatura si toglievano tutti i pezzi grossi dei fusti, poi con la gramola più fine si toglievano i pezzetti più piccoli, e qualsiasi altra impurità, finché la fibra rimaneva bella pulita. Nel tardo autunno o nell’inverno veniva “al consèn” che aveva diversi pettini di acciaio, in parte più grandi, in parte più fini. Dopo aver passato ripetutamente le fibra nei vari pettini, ricavava due tipi di materia da poter filare, il “carsol”, molto fine, dal quale si otteneva un filato adatto per tessere le lenzuola e la” stoppa” che era più ruvida e dava un filo per tessuti più scadenti. Ottenuta questa materia prima, le donne si mettevano a filare di giorno e anche nelle serate invernali. Una volta piene le piccole bobine c’era altro lavoro per noi ragazzi: svolgere il filo di canapa delle bobine e tramutarle in matasse per mezzo dell’aspa. Quando si programmava di fare la tela, la mamma comprava il filo di cotone bianchissimo che doveva servire per l’ordito della tela. Se il cotone era in matasse bisognava ridurlo in gomitoli. Poi si piazzava una intelaiatura rettangolare verticale che aveva, sui montanti laterali, infissi una decina di pioli in legno. In una cassa rettangolare che aveva circa 20 riquadri, distribuiti su due file, si ponevano altrettanti gomitoli di cotone. Il filo di ogni gomitolo convergeva in una spatola avente altrettanti fori. Tutti questi fili provenienti dalla spatola si univano e si legavano insieme all’inizio dell’intelaiatura verticale che, congegnata in quel modo, distribuiva il mazzo di fili in tutte le impalcature e preparava l’ordito della tela che doveva essere esclusivamente di filo di cotone . Preparato questo grosso involto di fili di cotone, si provvedeva a trasferirlo sul telaio, arrotolandolo su di un perno cilindrico largo quanto la misura trasversale del telaio. La larghezza del telo era di solito non più di 120 cm. Per fare un lenzuolo matrimoniale occorreva cucire insieme due teli. L’ordito veniva teso in modo leggermente inclinato verso la postazione della tessitrice, curando di far passare ogni singolo filo prima per i “licci” poi per il pettine ed infine tutti i fili si allacciavano ad una striscia di tela chiamata “inizio tela “ fissata ad un altro perno cilindrico di legno ( diametro 10 cm) che in seguito arrotolava la tela appena fatta . I fili di cotone dell’ordito erano stesi in linea orizzontale, ma, per mezzo di due pedali, venivano spostati metà per metà verticalmente creando così un passaggio alto alcuni centimetri, entro il quale la tessitrice faceva scorrere la spola dove era arrotolato il filo di canapa, protetto da una custodia affusolata chiamata la “ nasvéla “ ( in italiano navicella ). Ad ogni passaggio della spola corrispondeva un movimento della cassa col pettine per stringere il filo al resto della tela ed anche un movimento intercalato dei due pedali . Nei giorni della tessitura ( vacanze di Natale oppure in marzo ) i ragazzi erano impegnati a fare le spole con un piccolo attrezzo chiamato ”lindor o spolador” munito di due supporti con una rotella e una spina lunga 50 cm. dove all’estremità appuntita si infilava la spola che veniva riempita di filo, ruotando il meccanismo. Ogni volta si preparavano 20 o 30 spole, si mettevano in un recipiente e si portavano alla tessitrice che lo collocava su un apposito ripiano della “panchetta “. Nello stesso tempo la tessitrice chiedeva di passare l’ordito con un preparato a base di farina per rendere più scorrevole il lavoro della cassa e faceva ruotare di circa 20-30 cm. la tela già fatta. La stanzetta del telaio era munita di un camino per i mesi invernali. Finita la lavorazione, la tela novella veniva sottoposta ad un processo di sbiancamento, ma non ricordo il procedimento. Anche se sbiancata, la tela , utilizzata per realizzare lenzuola, tovaglie, canovacci o asciugamani, era sempre molto ruvida; quando ci si asciugava dopo essersi lavati, la salvietta graffiava.
ALLEVAMENTO DELLE PECORE – Per qualche anno si cercò di tenere le pecore che fornivano lana per maglie e pullover. La custodia delle pecore era affidata ai ragazzi oppure venivano legate singolarmente ad un palo con una funicella lunga qualche metro nei punti dove cresceva un po’ d’erba, per non lasciarle scorrazzare nei prati. La tosa delle pecore avveniva due volte all’anno , ottobre ed aprile; prima della tosatura però si portavano nel corso d’acqua per un primo lavaggio della lana. Dopo la tosatura avveniva il lavaggio definitivo, con successiva esposizione al sole per asciugare la lana. Era interessante vedere la tosatura: alla pecora venivano legate le quattro zampe unite per impedire movimenti pericolosi ; si usava un grosso paio di forbici, appositamente realizzate. Dopo la tosatura, la pecora era irriconoscibile come aspetto e come dimensione. Avendo soltanto due femmine, pensando di poter allevare qualche agnello, era necessario trovare un maschio in prestito per la riproduzione. Compito anche questo piuttosto ingrato e affidato ai ragazzi. Vi era una famiglia di Tortiano che prestava il maschio. Si doveva andare a Tortiano in due con un'unica bicicletta. Una volta prelevato il montone, uno lo conduceva a piedi con una corda , l’altro, più grande, seguiva adagio in bicicletta. In mancanza di strade più comode si arrivava a ridosso del ponte di Montecchio poi si imboccava il sentiero dell’Enza e, dopo un’infinità di giri e di curve, si arrivava all’inizio di via Resga ad un chilometro da casa. Torno a ripetere che gli indumenti ottenuti con la lana di pecora avevano una buona tenuta termica, ma procuravano un disgustoso prurito. La fine della guerra portò al graduale ristabilimento di una vita più normale e dignitosa.
I GIOCHI DEI RAGAZZI E EEGLI ADULTI NEL PERIODO INVERNALE – Il luogo consueto ed insostituibile per il ritrovo dei ragazzi ed adulti era la stalla. Il periodo più felice erano i mesi di novembre e dicembre. La nostra stalla preferita era quella di S. Geminiano Sud, proprietà Candian, mezzadri fratelli Fochi. Era molto spaziosa, con ampie finestre che davano molta luce . Vi era sempre una posta vuota dove si potevano piazzare un tavolino e le sedie senza disturbare nessuno. Ci si andava molto spesso perché mia sorella maggiore aveva in quella famiglia due compagne di scuola. Intanto che la nonna Italina leggeva “il Conte di Montecristo “ ed altri libri, noi giocavamo a briscola o a tombola. In qualche occasione si presentava un divertimento straordinario: un parente di famiglia, allora quindicenne, di nome Mario Barigazzi, il futuro “Barimar”, era appassionato di fisarmonica e, pur essendo giovanissimo, era un virtuoso e le ragazze più grandicelle si mettevano a ballare tra di loro. La sera però si rimaneva nella nostra stalla meno comoda e meno spaziosa, ma almeno, nelle ore serali, gli animali erano coricati e tranquilli. Le donne per due o tre ore filavano o lavoravano a maglia. Avevamo sempre due garzoni che vivevano presso di noi. Il più giovane portava degli stivaletti a metà gamba, con suole di legno e tomaie di pelle, chiamati in dialetto i “sabò”. Era abituato a costruirseli da solo e la sera veniva nella stalla con due tomaie da cucire con ago, spago e pece. Era però tanta la sua passione per il gioco che, appena l’altro garzone proponeva una partita, abbandonava il suo lavoro ed iniziava il gioco che si protraeva sino a tarda sera. In definitiva il lavoro di calzolaio che avrebbe potuto finire in una settimana durava più di un mese. Un altro ospite della serata di stalla era un agricoltore delle vicinanze, molto appassionato di politica e degli avvenimenti internazionali . Sapendo che noi avevamo la radio veniva tutte le sere perché alle 20,30 si andava ad ascoltare il “giornale radio”, poi si tornava nella stalla e si commentava quanto si era ascoltato. Spesso era presente un vicino, molto patriottico, che era stato un ragazzo del ‘99 e alpino con il grado di caporalmaggiore; aveva un’infinità di episodi di vita militare da raccontare. Molto spesso però l’uditorio si riduceva a due sole persone: il sottoscritto e mio padre. Mio padre non aveva però molta resistenza come uditore e dopo circa un’ora si addormentava e rimanevo io solo ad ascoltarlo . I racconti si ripetevano più volte, tanto che ancora oggi sarei in grado di ricordare tutti i luoghi da lui citati e le vicende vissute e come si era distinto per atti di valore . Terminata però la stagione invernale, i giochi in casa e gl’incontri con i vicini subivano una certa rarefazione . Durante il periodo scolastico fino a giugno, dopo i compiti e le lezioni, non restava molto tempo, anche perché i genitori avevano pronti diversi lavori : portare da bere a chi lavorava nei campi, riempire la vasca dell’acqua con il “sambot” per abbeverare il bestiame, custodire la scrofa quando aveva i maialini piccoli, perché nel coricarsi non li schiacciasse, raccogliere e sgranare i fagioli nell’orto e tanti altri lavoretti adatti ai ragazzi. Nell’estate al tempo della raccolta del pomodoro da fine luglio sino ai primi di settembre, era il momento propizio per costruire le casette con le cassette da pomodoro: si allestivano il negozio di alimentari, la trattoria e, per le femmine, il laboratorio di sartoria col relativo movimento di gestori e di clienti. Rimaneva anche il tempo di fare il gioco della settimana, nascondino e anche vari giochi con la palla che però non era sempre facile possedere. Arrivato il periodo scolastico si rientrava nei ranghi e tutto tornava nella quotidiana normalità.
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Data creazioneMartedì, 02 Giugno 2020
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Ultima modificaMartedì, 22 Agosto 2023