Elenco delle storie
GIORGIO ARTUSI DI MONTICELLI
-
Periodo StoricoLa Seconda Guerra Mondiale e le memorie
-
Argomento storicoLe nostre memorie del 900 da Monticelli
MEMORIE DI GIORGIO ARTUSI classe 1945
Sono arrivato a Monticelli col matrimonio, quindi non ho di mio vecchie storie locali da raccontare; ho avuto la presunzione di scrivere questa “storia di Montechiarugolo” e, dato che per i miei figli nati e cresciuti qui, ho scritto qualche breve favola, mi è sembrato giusto raccontarvele.
Giacomino l’amico degli animali - In una piccola casa vicino ad un bosco di faggi e castagni, abitava un piccolo bimbo biondo “Giacomino”. Nella sua casa non c’era la televisione ed era anche molto lontana dalle case degli altri bimbi, così nella bella stagione faceva lunghe passeggiate nei prati e nei boschi, ed aveva imparato a conoscere il modo di vivere di molti animali. Conosceva l’albero con la tana dello scoiattolo “Bigino”, il nido della civetta “Deda”, quello della gazza “Serena” e anche lo stagno dove il cerbiatto “Giorgio” andava ad abbeverarsi. Nelle sue passeggiate parlava spesso con questi suoi amici, certo loro non rispondevano, ma sembrava che capissero e di tanto in tanto emettevano qualche versetto. Giacomino raccontava volentieri alla mamma e al babbo delle sue passeggiate e dei suoi amici. Loro ascoltavano un poco del racconto, poi gli rammentavano: “ con le tue fantasie vedi di non inoltrarti troppo nel bosco, potresti perderti!”. Una sera che Giacomino aveva mangiato tanto e la sua pancia era gonfia come una botticella, fece un brutto sogno. Si sognò che era entrato nel bosco e, rincorrendo il cerbiatto, aveva corso e camminato tanto che, né lui né Giorgino, sapevano più dove si trovavano. Cercarono allora di parlare con gli animali del posto, ma questi non li capivano e, spaventati, scappavano appena loro si avvicinavano. Piano piano nel sogno di Giacomino arrivò la sera e, con il buio, il bosco divenne tenebroso. Giacomino era un bimbo coraggioso, ma non sapeva d’esserlo, si spaventò e cominciò a sudare, infine si mise a gridare: “Mamma, mamma, aiuto! aiuto … no! No! Non andrò più nel bosco, aiuto!”. Fortunatamente la mamma sentì che Giacomino non stava bene, si alzò, andò nella sua cameretta, gli sentì la fronte tutta sudata e gli diede un bacetto. Giacomino si svegliò dal suo brutto sogno e corse nel lettone tra mamma e papà. Il babbo brontolò un poco perché sapeva che Giacomino si sarebbe incastrato con piedi e gomiti sulla sua schiena senza possibilità di allontanarsi, ciononostante anche lui riuscì a dormire sino a mattina. Il giorno seguente Giacomino aveva ancora qualche problema di pancia, per di più piovigginava e non si poteva uscire, sicché la mamma gli lesse alcune favole. Una narrava di un grande vecchio che abitava nel bosco ed era amico degli animali; Giacomino pensò: “ anch’io da grande sarò un grande vecchio amico degli animali!”. Nei giorni seguenti Giacomino parlò molto del grande vecchio, lo fece con Deda, che però dai suoi occhioni saltellanti sembrava non capire. Bigiolino invece dimenava la coda e sembrava dire: “ sì , sì, è proprio un mio amico!”. Qualche giorno dopo il babbo, parlando con la mamma, disse: “ domani aprono la caccia, sarà la solita strage di lepri e di fagiani!”. Giacomino stette in silenzio, ma cominciò a pensare ai rischi che correvano i suoi amici e a cosa poteva fare per loro. Quella sera la mamma dovette richiamarlo spesso perché con tutti quei pensieri non riusciva a mangiare. Anche a letto continuò a pensare: “Debbo fare qualcosa per salvare i miei amici , sì! O io o il vecchio dobbiamo fare qualcosa!”. Così pensando si addormentò. Non era però un sonno tranquillo e poco dopo cominciò a sognare e sognava che era mattina, la prima mattina di caccia. A casa sua erano arrivati tanti amici dei genitori, con fucili e cani da caccia, c’era molta confusione e specialmente i cani erano molto eccitati. I cacciatori raccontavano delle loro prodezze dello scorso anno: “ io ne ho presi …, io non ho mancato un bersaglio e … quest’anno ho un fucile a cinque colpi: farò una strage!”. Giacomino voleva dire al suo babbo di mandarli via tutti e subito, ma fra tanta confusione non riusciva a trovarlo. Intanto nel sogno anche la casa si andava trasformando, era fredda sconosciuta e inospitale, così Giacomino decise di scappare e corse verso il bosco. Appena vide Deda le gridò: ” Scappiamo, scappiamo, ci sono i cacciatori!”. Ma Deda, tutta assonnata spalancò gli occhi e rispose: “ Sì, sono i cacciatori, beh… salutali tu, io ho troppo sonno! “. Giacomino riprese a gridare, ma a questo punto fu Bigiolino che gli disse: “ Zitto, zitto è ancora mattino presto, svegli tutti!”. Ma mentre Giacomino cercava altri amici, s’udì il primo sparo: “Bum!”. Poi subito dopo:” Bum, bum, bum!”. Al quinto colpo la gazza Serena cadde ai piedi di Giacomino con un’ ala spezzata! A quel punto si fece silenzio e tutti gli animali capirono che un grosso pericolo li sovrastava. Nel silenzio Giacomino capì che tutti contavano su di lui, era lui il loro amico, il loro capo e a lui spettava di salvarli. Raccolse Serena e la accarezzò, poi, deciso, gridò: “Scappiamo, scappiamo, di là, nel folto del bosco!”. Tutti gli animali lo seguirono: Bigino, scodinzolando, rimbalzava contro i ciuffi d’erba più consistenti, la Deda con le sue ali spiegate volava zigzagando per avvertire gli altri animali. Purtroppo dietro al gruppo in fuga che si andava infoltendo, si udiva il latrato dei cani da caccia che si avvicinavano e qualche isolato bum bum con foglie e pallini che cadevano dagli alberi e, mentre Giacomino cercava di rincuorare gli animali e li incitava ad andare più veloci, improvvisamente il bosco era finito e si trovarono sul bordo di una radura spoglia. Deda gridò: “ Qui non ci sono alberi, ci vedono”. “Certo - ribatté Bigiolino - ci spareranno!” . Giorgino confermò: “Senza alberi per ripararci, ci colpiranno”. Anche Giacomino fu preso dall’ansia e temette di non poter più proteggere gli amici, ma dopo un attimo di terrore, notò che proprio al centro della radura sorgeva una collinetta e sopra a questa una piccola casa. “Sì – gridò – sì, deve essere la casa del vecchio, il vecchio amico degli animali, corriamo là!”. Il latrato dei cani si faceva sempre più vicino e si cominciava ad udire anche le grida dei cacciatori: “Là, là, c’è una radura faremo caccia grossa!”. Mentre il gruppo di amici in fuga stava raggiungendo la casetta, improvvisamente comparve un vecchio, alto e con due grossi baffoni bianchi, che sembrava arrabbiato per il vociare di quel gruppo disperato. Giacomino lo raggiunse e, con due occhioni pieni di pianto, gridò: “Stiamo scappando dai cacciatori, vogliono fare una strage!”. Il vecchio sembrava stranamente calmo, forse non capiva che era ormai questione di secondi: i cani, poi i cacciatori sarebbero arrivati e … Giacomino ritrovò la voce e riprese: “ Se sei l’amico degli animali, devi salvarci, in fretta, non perdere tempo!”. Ma il vecchio con calma rispose: “ E tu, anche tu sei l’amico degli animali?”. “ sì, ma fai qualcosa presto!”. Allora il vecchio disse: “questa è la casa dell’amico degli animali e nessun uomo o cane che non vi ama potrà vedervi!”. E mentre diceva questo , dal bosco sbucarono i primi cani, poi i primi cacciatori, ma stranamente si guardarono attorno senza sparare. Anche i cani sembravano storditi, non abbaiavano e non sapevano che pista seguire. Improvvisamente un cacciatore gridò: “devono esserci scappati nel bosco, torniamo indietro!”. A quel punto sparirono tutti. Poi il vecchio guardò Giacomino e gli chiese: “ allora anche tu sei amico degli animali ?”. “ Sì!” rispose fiero il bimbo. “ Bene, però ricordati: è importante che tu resti loro amico anche da adulto”. “Certo- rispose il bimbo lo sarò!”. Si sentì un richiamo: “ Giacomino, Giacomino!”. Piano piano, la comitiva di amici scomparve e il bimbo si svegliò. “Giacomino - ripeteva la mamma- svegliati! E’ mattino, sono già arrivati gli amici del babbo con le macchine fotografiche, devi accompagnarli nel bosco a fotografare i tuoi amici”. Giacomino si fermò un poco sul letto e pensò: “ saranno gli amici del vecchio quelli con le macchine fotografiche?” Poi la voglia di vedere chi erano gli mise fretta , si scollò dal letto e si tuffò in un nuovo, bellissimo giorno.
Il mandarino passino - In un bel giardino pieno di alberi d’aranci, chissà come, nacque un giorno un alberello di mandarino: era una piantina piccola, piccola, nata all’ombra di un muro alto e diroccato e non vedeva mai il sole. Il giardiniere gli passava vicino spesso, ma sembrava che non lo vedesse nemmeno, perché le sue foglie non erano lucide, il suo tronco era un poco storto e poi, quando iniziò a fare frutti, questi erano piccoli e “passini”. Quando venne la stagione del raccolto, gli alberi d’arancio erano carichi di frutti e orgogliosi di quelle palle rotonde e colorate. Il mandarino Passino aveva invece dei frutti piccoli, avvizziti e pallidi . Quando il giardiniere venne con le cassette per cogliere i frutti, passando davanti al mandarino Passino, disse: “ Mandarino Passino, conta i tuoi giorni, perché una pianta così brutta non la voglio nel mio giardino”. Il mandarino Passino cominciò a piangere, chiedendo aiuto alle piante d’arancio, ma queste ridendo ripetevano: “ Ma cosa vuole questo mandarino Passino da noi aranci? Non siamo certo fratelli e il giardiniere fa bene a levarlo di torno”. Quei discorsi tra alberi non erano certo colti dal giardiniere, ma un vecchio contadino che aveva trascorso tutta la sua lunga vita tra aranci, limoni e mandarini capì che qualcuno aveva bisogno di lui. Si recò nel giardino, guardò qua e là le varie piante d’aranci, poi si diresse deciso verso il mandarino Passino, lo toccò sul tronco, poi toccò le foglie. Intanto gli alberi d’arancio cominciarono a ridere e dicevano: “ Mandarino Passino, son finiti i tuoi giorni, hanno mandato qualcuno per toglierti dal giardino”. Ma pur ridendo, cominciarono a sentirsi un poco a disagio, quasi invidiosi, perché il vecchio sembrava accarezzare il mandarino Passino. Smisero così di ridere e cercarono di capire cosa faceva e cosa diceva il vecchio, ma era impossibile perché lui bisbigliava. Quando il vecchio se ne andò, gli aranci cominciarono a brontolare: intuivano che sarebbe successo qualcosa, ma non riuscivano a sapere cosa.
Il giorno successivo il vecchio contadino ritornò con una carretta, un’ accetta, un piccone, una vanga e un badile e si diresse verso il mandarino Passino, bisbigliò qualcosa, poi con l’accetta molto affilata, tagliò qualche rametto basso e contorto. Un albero d’arancio, che era cresciuto molto in fretta e aveva più rami che cervello, cominciò a gridare: “ Lo tagliano, il mandarino Passino, piccolo e brutto … lo tagliano!”. Il vecchio si voltò verso l’arancio e alzò minacciosamente l’accetta. L’arancio strinse i suoi rami verso il tronco e, tremante, si zittì. Contemporaneamente gli altri alberi, pieni di curiosità, mormoravano: “ Lo tagliano ?”. “No! - disse risoluto l’albero più vecchio - conosco quel vecchio, fu lui a piantarmi in questo giardino tanti anni fa; è un agricoltore molto esperto ed è specialista nella potatura di alberi da frutta; vedrete che forse riuscirà a curare mandarino Passino” . In effetti, dopo un poco di lavoro, il mandarino Passino sembrava uscito dal barbiere: aveva perso quella linea contorta e, se non fosse stato per le foglie avvizzite, avrebbe potuto essere definito un bell’alberello. Il vecchio posò l’accetta e con il piccone tolse qualche sasso dalla cima del muro, permettendo al sole di raggiungere le foglie del mandarino. Era la prima volta che questi sentiva i raggi del sole sulla sua pelle, pardon, sulle sue foglie; l’effetto era piacevole e pensava che con i raggi di sole sarebbe cresciuto forte come una quercia, ma per l’emozione ebbe un tale tremito che alcune foglie gli caddero a terra. Il vecchio guardò Passino e sembrava cogliere quell’emozione tanto che si sentì ringiovanire anche lui. Poi prese la vanga e cominciò a scavare attorno al tronco di Passino. Il solito alberone d’arancio sciocco cominciò a gridare che lo avrebbe tolto, ma questa volta si zittì da solo e tutti gli alberi del giardino guardavano in silenzio il lavoro del vecchio. Questi continuava a scavare e di tanto in tanto, anzi piuttosto frequentemente, toglieva dei grossi sassi dalla buca e li metteva nella carretta, così poco a poco, le radici di Passino si liberavano dai sassi che le imprigionavano. Certo, il lavoro del vecchio contadino era delicato: non aveva ancora rotto nemmeno una piccola radice! Passino sembrava sentire il solletico sulle sue radici e gli veniva la tremarella, ma comunque le radici si andavano scoprendo e non potevano assorbire acqua dall’aria. Ad un certo punto il contadino smise di scavare, controllò che l’alberello fosse ancora ben saldo nel terreno e, con una carezza, riprese la carretta e se ne andò. Allora gli alberi, che erano ammutoliti, ripresero a parlare, chiedendo a Passino che cosa il vecchio gli avesse fatto. Passino era un poco frastornato, era la prima volta che gli altri alberi gli parlavano, sembrava quasi che lo considerassero uno di loro e questo certo lo inorgogliva non poco. Fu così che, dopo qualche altra richiesta, Passino si decise a raccontare che il vecchio gli aveva promesso che sarebbe tornato a curarlo e che lui sarebbe diventato uno degli alberi più fruttuosi e utili, nonché uno dei più belli del giardino. Gli alberi stettero un poco in silenzio a pensare, poi qualcuno si disse contento di avere un amico in più. Un altro invece, piuttosto invidiosetto, disse: “ sono tutte balle, tu sei Passino e Passino resterai e ti andrà bene se non seccherai!”. Venne poi la notte e gli alberi, uno ad uno, si addormentarono. Solo Passino non riusciva a prendere sonno e si chiedeva se il vecchio sarebbe tornato, se avrebbe rivisto il sole e se le sue radici avrebbero pescato l’acqua dalla terra. Così, mentre Passino si tormentava con i suoi dubbi, spuntò il sole e, dalla breccia sul muro, i primi raggi raggiunsero la sua chioma . Per l’emozione l’alberello tremò, ma non cadde nessuna foglia, anzi sembrava si fossero irrobustite; tutto l’albero cominciò ad assorbire la luce e il calore del sole e ordinò alle radici di far salire la linfa perché voleva crescere. Ma le radici, pur lavorando a più non posso, non riuscivano a pescare acqua sufficiente per l’esigenza dell’albero. Erano infatti rimaste poche quelle a contatto col terreno che, con lo scavo, si era anche inaridito. Passino divenne triste, la sete era forte, e cominciò veramente a temere che in pochi giorni sarebbe essiccato, ma non si perse d’animo e chiamò a gran voce il vecchio: “ Vieni ad aiutarmi! Ho bisogno del tuo aiuto, sono certo che tu puoi salvarmi ...!”. Con quelle grida tutto il giardino cominciò a svegliarsi e alcuni alberi mezzo addormentati cominciarono a brontolare: “ Chi fa tutto questo chiasso? … Questo è un giardino serio! Fate silenzio!”. Nella confusione si sentì un cigolio che si avvicinava: era la ruota della carretta del vecchio. Si zittì Passino, si zittirono i brontolamenti e tutto il giardino restò col fiato sospeso sino a quando videro il vecchio contadino. Questi, arrivato nel giardino con la carretta colma di terriccio fertile e un grosso contenitore d’acqua, si guardò un poco attorno come per vedere se qualcuno aveva qualcosa da ridire, ma c’era un gran silenzio. Passino era serio, preoccupato, assetato ma silenzioso. Anche il contadino rimase in silenzio, ma lentamente cominciò a mettere il terreno fertile attorno alle radici di Passino e, di tanto in tanto, a versare un poco d’acqua. Finito di sistemare il terreno, il vecchio guardò il cielo che da sereno si andava rannuvolando, tornò a guardare gli alberi del giardino con un lieve sorriso sulle labbra, poi con un filo di voce disse che doveva proprio scappare per non bagnarsi e che qualcuno aveva deciso di regalare un’abbondante annaffiatura. Il vecchio accarezzò ancora le foglie di Passino, riprese la carretta e si allontanò. L’albero più vecchio, che era anche quello con la voce più forte, gridò: ““Grazie vecchio per la pioggia che arriverà, ma soprattutto grazie per il nuovo amico che ci hai donato!”. Il vecchio si voltò appena e, senza parlare, salutò con la mano, continuando per la sua strada, mentre le prime gocce cominciavano a bagnare le foglie degli alberi. Dopo qualche giorno dal temporale, il giardiniere tornò nel giardino, notò una nuova breccia nel vecchio muro , vi si avvicinò e vide Passino. Rimase molto sorpreso, perché ricordava un alberello talmente appassito e triste che doveva per forza essere tolto . Ora stranamente era un bellissimo albero, ancora piccolo perché giovane, ma con le foglie lucide e rigogliose. Pensò che fosse il più bel mandarino che avesse mai visto. Da allora in quel giardino nessuno lo chiamava più Passino, ormai era per tutti Mandarino, ma a lui piaceva ancora trastullarsi col suo vecchio nome. In particolare, durante i temporali, quando i tuoni, il vento e lo scroscio dell’acqua coprivano gli altri suoni, gli piaceva cantare: “Sono Passino , il più felice mandarino! Grazie vecchino! Grazie, grazie! Sono il più felice mandarino!”. Il vecchio, che abitava lontano, sentiva il vento nonostante fosse sordo e tendeva l’orecchio in direzione del giardino, mentre un grande sorriso rallegrava il suo volto. Da parte sua il giardiniere era tutto orgoglioso del suo mandarino e non mancava di dire ai visitatori: “ Certo è stupendo! Ma quanto ho sudato per farlo crescere così bello!”.
Lagna, la piccola castagna - In un bosco di castagni che sorgeva su un monte non molto distante da noi, era maturata in autunno una piccola castagna. I suoi fratelli di riccio erano nati grossi e lucidi e, appena il riccio si era aperto, erano balzati fuori tuffandosi nel tenero tappeto del bosco. Ma la castagna più piccola non era riuscita a seguirli subito perché era ancora intrappolata nel riccio, così cominciò a lagnarsi: “ Non riesco ad uscire, sono giorni che sto in questo riccio, perché loro sì e io no?”. I fratelli di riccio cercarono di spiegarle che la vita nel bosco aveva le sue regole e occorreva attendere che la natura facesse il suo corso. Ma la piccola castagna non voleva sentire ragioni e continuava a lamentarsi: “certo, certo! Bei ragionamenti! Perché voi siete sul prato e io no? Non è giusto! No, non è giusto!”. E fu così che nel bosco decisero di chiamarla Lagna. Per un poco fece l’offesa e si zittì, ma ben presto riprese: “ cosa ci faccio io qui, ancora chiusa in questo riccio, in questo bosco? Qui non mi capite, non mi meritate!”. Per tutta risposta i fratelli di riccio e le altre castagne cantarono in coro: “ vai Lagna! Vai Lagna! Lasciaci in pace, lascia la montagna!”. Ma Lagna continuava ogni giorno a lamentarsi e a disturbare le altre castagne. A questo punto il Castagno da cui era nata si disse: “Se non si sistema Lagna, si bacano tutte le castagne …”. Pensa e ripensa si ricordò di una gazza ladra che amava posarsi sui suoi rami più alti e con la quale, di tanto in tanto, scambiava delle confidenze sulle cose e sui posti che la gazza aveva visto volando, o sui temporali e fulmini che lui aveva sentito minacciosamente vicini. Il Castagno si mise allora a sbattere furiosamente i suoi rami attirando l’attenzione della Gazza che si avvicinò e chiese spiegazioni di una tale agitazione, ma in quel momento Lagna iniziò: “ non è vita da castagna questa! Da giorni sono tutta sola nel riccio! No, proprio no! Non è vita da castagna! Poi io sono troppo piccola, qui non potrei mai diventare un albero e crescere! No, qui no! Una castagna non può vivere così!”. A quel punto la Gazza guardò il Castagno e capì cosa lo tormentava. Sorrise e disse di non preoccuparsi: ci avrebbe pensato lei! Infatti, con un balzo, volò verso il riccio e bastarono due beccate precise per fare uscire Lagna che cadde finalmente a terra sul manto del bosco, ma lei, lungi dall’essere contenta, ricominciò: “ ecco, nemmeno mi portano a terra , mi fanno cadere come una castagna qualunque, dopo giorni di attesa! Poi, cosa ci faccio io in questo bosco? Non mi piace! No, non mi piace! Portatemi via! Voglio andare in un giardino di città, non sono una castagna da bosco, io!”. La Gazza tornò a guardare il Castagno che era sempre più sconsolato e, ancora una volta, disse di non preoccuparsi e che ci avrebbe pensato lei. Prese Lagna col becco e si alzò in volo, ma ovviamente Lagna non si smentì e riprese: “siamo sicuri che mi porterai in un giardino di città? Siamo sicuri che potrò crescere bella e felice in barba a tutte le castagne del bosco? Figuriamoci poi se mi posso fidare di una gazza ladra! No, certamente non mi fido!”. La Gazza stava volando da quasi mezz’ora e si trovava ormai sui Boschi di Carrega. Lagna nel frattempo continuava con le sue lamentele , dicendo che lei era degna di un giardino da principi, non di un posto qualsiasi. A quel punto la Gazza, che non ne poteva più, aprì il becco per dirle di smetterla , ma Lagna, agitandosi per una nuova invettiva, cadde dal becco e, dopo un breve volo, atterrò nel bosco. La caduta non era stata tanto violenta, ma Lagna rimase un poco intontita, così non riuscì più a brontolare. La Gazza per alcuni minuti tornò a sorvolare il prato dove Lagna era caduta, ma con l’erba alta non riusciva a scorgerla. Dato che non la sentiva più brontolare, decise di abbandonare la ricerca. In fondo il favore al Castagno lo aveva fatto e pure a Lagna che, alla fine, era caduta addirittura nel bosco dei Principi! Ritornò quindi in montagna gracchiando: “ Chi si lagna e si rilagna è fortunato se ancora casca in campagna!”. La cosa non è certa, ma persone bene informate raccontano che il castagneto dei Boschi di Carrega è nato proprio da Lagna. Forse è vero, ma questa Lagna si deve essere data una bella calmata!
Ripensandoci, riaffiorano i ricordi di quando ero bambino, non a Montechiarugolo, ma a S. Leonardo. Credo che le condizioni economiche, sociali e, in sostanza, la cultura non fossero molto diverse da qui, pertanto racconterò alcune cose:
Il regalo trasferito - Nei primissimi anni Cinquanta l’Italia si stava riprendendo dalla disastrosa guerra, la fame non era più un problema diffuso, ma le disponibilità economiche di una famiglia con un solo stipendio erano veramente limitate. Alcuni giorni prima di Santa Lucia, forse quando avevo sei o sette anni, mia madre mi chiese: “ Giorgio quest’anno per Natale vuoi che ti facciamo il regalo o regaliamo una caffettiera ( la napoletana ) al babbo? E’ tanto che la desidera ”. Risposi che andava per la caffettiera. Ripensandoci oggi, non so se la scelta fu dettata dall’amore per il babbo o la preoccupazione di deludere la mamma, ma a distanza di oltre sessanta anni, mi emoziono ancora a ripensarci e, forse proprio perché allora si ricevevano al massimo due regali all’anno, credo sia stato il regalo più bello che ho fatto nella mia vita.
Un gioco tra bambini. Nel borgo ( Via Turati ) i bambini tra i sette e i dieci anni erano più di una decina. Un giorno di primavera passammo per i buchi di una rete che ci separava dai campi coltivati e iniziammo a giocare a indiani e soldati. C’era un campo di terra tutta dissestata ( in realtà perfettamente arato ) e dei prati con l’erba non ancora molto alta. Decidemmo che un gruppo doveva livellare il terreno ( arato ) per farci un paese e altri avrebbero montato delle capanne di canne nel prato. Dopo alcune ore d’intenso lavoro, dal prato arrivarono le urla dei ragazzi e noi pensammo che qualcuno avesse cominciato a fingere la lotta tra soldati e indiani, ma bastarono uno o due minuti perché scoprissimo che l’attacco era fatto da due o tre contadini che, armati di stroppe, stavano pagando chi gli aveva pestato il prato e, subito dopo, quelli che avevano livellato con grande perizia una mezza biolca di terra arata. Trovandomi vicino alla rete, io e altri sfuggimmo all’attacco, ma dopo che i contadini si furono recati nel borgo a sgridare i nostri genitori, per molti di noi l’attacco si ripeté in casa.
Una grande nevicata. Essendo piccoli, quella volta ci sembrò che la neve caduta fosse tantissima, sicché un ragazzo grande ( dodici anni ) che a volte giocava con noi, ci diede l’ordine di fare le valanghe, ovvero far rotolare un mucchietto di neve fino a farne una palla di circa mezzo metro di diametro. Queste valanghe vennero poi ammassate una sull’altra e pestate fino realizzare un cubo di circa due metri di lato. Si cominciò quindi a scavare da un lato ( la porta) sino ad ottenere un grosso vano. C’era voluto un pomeriggio per costruire il nostro igloo, ma non passarono che dieci minuti quando un’orda di madri terrorizzate si avventò sulla nostra opera gridando: “ Potevate morire soffocati!” . In breve distrussero tutto. Sono passati molti decenni, ma ancora sono convinto che non doveva finire così.
Passano gli anni e arrivano gli sputnik. Un cane prima e l’uomo poi erano andati nello spazio. Allora avevo ormai una quindicina d’anni, in teoria ero quasi grande, mi affascinavano le riviste che parlavano di missili fai-da-te. Era troppo facile realizzare la polvere nera con il salnitro e lo zolfo comprati in drogheria e il carbone fatto con la stufa. Iniziò così la mia carriera missilistica. Il primo missile bruciò nella rampa senza muoversi, il secondo bruciò per un poco, poi si spense e fu silenzio per alcuni secondi, quindi esplose. Eravamo tre ragazzi e cademmo per terra nella neve, ci rialzammo e vedemmo alcune linee nere nella neve ( polvere inesplosa ) che passavano tra di noi. Seguimmo le tracce per una trentina di metri e trovammo tre pezzi del tubo idraulico che costituiva il razzo. Eravamo stati graziati, capimmo il rischio ma la voglia restava troppa. I nostri genitori ancora non sapevano nulla, per cui decidemmo di fare altre prove al riparo di un argine del Parma e l’accensione sarebbe stata fatta con una resistenza collegata con un filo alimentato dal clacson di un motorino. Provammo anche col carburo e con le pastiglie di clorato di potassio che, con lo zolfo, erano pericolose perché potevano esplodere se battute con un oggetto metallico. Fortunatamente ci stancammo prima che succedesse l’irreparabile.
Come cambia il costume – Negli anni Sessanta frequentavo l’Università a Parma e ricordo che per gli esami mi presentavo, come tutti i maschi, con giacca e cravatta; poi arrivò il Sessantotto e la cravatta non era più un obbligo. Ma nei primi anni Settanta, neo-assunto alla multinazionale Philips, in un incontro di direzione, un addetto al personale mi si avvicinò e disse: “ Bello il suo maglione ingegnere, io purtroppo devo portare giacca e cravatta!”. Non erano ancora arrivati i maglioni di Marchionne per cui era tutto normale nell’ottica di una multinazionale. Pochi giorni orsono in una gita scolastica sui nostri monti, mia figlia Serena, ( insegnante ), parlò con un guida alpina (Erminio Fontani) che, saputo il suo cognome, chiese che attività svolgeva suo padre. Lei rispose che lavorava a Reggio Emilia, nella cooperativa Ceire. La guida esclamò: “Ma allora è l’ingegnere! Sa che gli ho fatto io il colloquio per l’assunzione nel 1975 , ma sa una cosa strana? Si è presentato con i sandali!”. Chissà se oggi ci si stupisce ancora per un candidato che si presenta con i sandali!
La ricchezza – Cos’è la ricchezza ? Materialmente è misurabile con il valore monetario delle cose possedute, e con questo valore si può stabilire chi è più ricco dell’altro. Ma per il singolo individuo cosa significa essere ricco e come si sente ricco ? Qui il problema si fa complesso: per qualcuno è il proprio reddito, la misura di quanto sia più alto di quello delle persone che frequenta, ma questa valutazione è fragile, perché basta entrare in contatto con persone che hanno maggiori disponibilità, e cade il proprio senso di ricchezza. Pur astraendo dal concetto di ricchezza morale esiste un altro metro di valutazione della propria ricchezza, una valutazione essenzialmente personale perché nasce dall’insieme dei sogni realizzati e dei desideri che si ritiene di poter realizzare , e in questo c’è una ricchezza paradossale che è una dignitosa povertà infantile. Sembra un paradosso ma un’ infanzia povera, ma dignitosa, è una base fortissima per valutare la nostra ricchezza attuale. Penso ad una domenica mattina, inginocchiato alla bassa finestrella del solaio ove vivevamo, mio babbo, vedendo passare una vespa mi disse: “ Vedrai che un giorno anche noi avremo una vespa” . Certamente c’era un poco d’invidia, ma soprattutto un grande desiderio che si realizzò nell’arco di pochi anni. E’ ripensando a questi sogni, che gradualmente si sono realizzati, che sento la mia ricchezza attuale. E mi fa tristezza quando sentivo o sento persone affermare : “Io non ho avuto … ma mio figlio deve avere …”. Evidentemente la loro personale concezione di ricchezza si limita alla disponibilità economica e con questa visione non saranno mai ricchi. Forse anche i loro figli o nipoti rincorreranno le chimere della pubblicità e proveranno un senso di ricchezza solo per un breve periodo dopo un acquisto, poi tornerà un senso di povertà per l’arrivo di un nuovo modello di auto o di telefono fuori dalla loro disponibilità.
-
Data creazioneMartedì, 02 Giugno 2020
-
Ultima modificaVenerdì, 24 Maggio 2024